Relazione all’assemblea del clero del 16/12/2022 (Curia Vescovile di Latina)

16-12-2022

Dove stiamo andando?

Riflessione con i preti e i diaconi

Venerdì 16 dicembre 2022

+ Mariano Crociata

Vi ringrazio di aver accolto l’invito a condividere un momento di riflessione in questo giorno in cui vogliamo anche scambiarci gli auguri di Natale. Mi ha spinto a rivolgervi questo invito quanto ho avuto modo di raccogliere dai verbali delle vostre riunioni ordinarie di forania e dalle riunioni con due foranie che ho già avuto personalmente, seguendo il programma che stiamo portando avanti quest’anno; e poi naturalmente mi sollecita anche quanto ascolto in diverse occasioni di colloquio con alcuni di voi, che fanno riemergere una domanda che sale dalla situazione in cui si trova la nostra diocesi, e non solo. Ci chiediamo infatti: dove stiamo andando? Qual è il progetto, l’idea che ci guida?

Devo confessarvi che domande del genere suscitano in me sulle prime una certa irritazione, poiché a caldo mi sembrano dettate o da ignoranza o da malafede, perché mi dico che tante volte abbiamo già cercato di dare risposte e indicazioni in riferimento all’una e all’altra domanda, e anzi si potrebbe dire che tutto il nostro cammino diocesano ruota attorno alle questioni così poste. A pensarci bene, però, capisco che, con tutte le cose che abbiamo detto, pensato, discusso in questi anni, la chiarezza sulle prospettive non sia così come io per primo vorrei. E questo non solo per i limiti delle nostre capacità, ma per la difficoltà inedita e drammatica che oggi si presenta a noi. Per questo, tornare sulla questione è necessario e lo sarà ancora in futuro, perché dobbiamo aiutarci insieme a costruire un cammino che è difficile prevedere con sicurezza, poiché sono molte le incognite e le insidie che ci stanno dinanzi. In questo incontro vorrei fornire degli elementi che confermino il cammino fatto e aiutino quello futuro in una chiarezza sempre più grande e soprattutto con un animo sempre più fiducioso e impegnato. In questo senso l’incontro di oggi si coniuga con gli incontri con le foranie e con le parrocchie, che ho già incominciato, e vuole essere inteso nello spirito sinodale che anima e guida la vita della Chiesa in questo tempo.

Naturalmente dobbiamo guardarci dal pensare che tutto dipenda da noi e che l’unica cosa che conti sia la nostra capacità di programmare e organizzare. Per questo voglio partire da una premessa importante e poi riflettere con voi su come continuare a cercare una via di futuro per la nostra Chiesa. La premessa che desidero fare mi è stata salutarmente richiamata da tre di voi, due preti e un diacono. Capita fatalmente, ogni volta che parliamo di ciò che ci aspetta e di ciò che dobbiamo fare per trovare qualche rimedio, di trasmetterci a vicenda uno stato d’animo depresso, abbattuto, che evidentemente non aiuta poi ad andare avanti e a lavorare. Perché non si può svolgere il nostro ministero senza gioia, con un animo oppresso e scoraggiato, perché alla fine si rischia di soccombere.

La questione non è semplice, poiché se guardiamo i numeri, c’è poco da rallegrarsi. Ho calcolato che nei prossimi dieci anni circa, avremo dieci preti in meno di quelli attualmente attivi, ipotizzando per tutti un’età limite di 80 anni. E in un quadro numericamente già così povero potete immaginare che cosa ciò comporterà. Dobbiamo essere grati ai preti non italiani o non diocesani, che ci aiutano o per alcuni anni o nel fine settimana, ma non potranno essere loro a mutare le sorti della nostra diocesi, pur essendo la loro presenza preziosa non solo per il servizio pastorale che svolgono ma anche per la ricchezza umana e spirituale che condividono con noi.

Non serve a molto, poi, farsi coraggio con pacche sulle spalle, ottimismo di maniera o spiritualismo da strapazzo. Ci vuole insieme sguardo lucido sulla realtà e fede. Sì, la questione è la fede, perché solo da essa può nascere un atteggiamento adeguato al momento che attraversiamo. Perciò non dovremmo mai perdere di vista due verità – che dovrebbero diventare costante esperienza spirituale personale e comune – fondamentali del nostro essere credenti e del nostro essere Chiesa. La prima è che Cristo ha già vinto. Questo, che è l’articolo originario del nostro credere – poiché tutto comincia con l’annuncio della risurrezione di Gesù –, dovrebbe diventare sempre di più fattore decisivo della nostra coscienza e della nostra riflessione credente. Il nostro compito è credervi profondamente e metterci dalla parte del risorto vittorioso in ogni circostanza e in ogni situazione. La seconda è che la Chiesa è di Dio e di Cristo, non è nostra, non dipende da noi. Cercare di capire ciò che il Signore ci chiede, con onestà intellettuale e con fede, è ciò che dobbiamo fare traendone tutte le conseguenze per i nostri atteggiamenti e per le nostre scelte. Bisogna trovare il modo di assecondare quanto il Signore non solo ci suggerisce ma sta già operando.

Questo ci fa entrare pertinentemente nel merito delle questioni. L’anno scorso abbiamo dedicato tre incontri ai temi del diaconato, dei laici e delle comunità di parrocchie. Sento di dover dire che di fatto abbiamo toccato i punti scottanti della nostra situazione di Chiesa e del suo futuro. Abbiamo tratto insieme poche proposte operative, ma non mi pare che queste abbiano ancora avuto seguito. Questo mi consente di richiamare un atteggiamento delicato e importante per le conseguenze che ha su di noi. Ci può essere, infatti, chi pensa che se c’è qualcuno che deve fare qualcosa e deve cambiare, questi è chi sta in alto, e se ci sono delle soluzioni, queste devono venire da altri, non da noi che riteniamo di non dover cambiare niente.

Non è così. Dobbiamo capire infatti che – anche in questo caso – l’altro siamo noi, colui o coloro che devono rispondere o risolvere le questioni che scottano siamo noi stessi. Ne è un segno il fatto che nella nostra diocesi parroci e direttori di ufficio coincidono. Come parroci, potete chiedere a voi stessi, quando siete direttori, a rispondere dal versante diocesano alle varie esigenze. Rimane il vescovo, ma egli non ha la bacchetta magica, può solo coordinare ciò che va via via deciso e messo in atto. Possiamo solo cooperare a fare insieme i passi necessari.

La riflessione che abbiamo svolto l’anno scorso ci riporta a una considerazione che diventa sempre più necessaria, e cioè che il dibattito della Chiesa di oggi e l’orientamento dello stesso magistero, per un verso, e i dati numerici, dall’altro, conducono inesorabilmente a una sola conclusione: noi preti non bastiamo piùalla Chiesa e a fare la Chiesa. C’è in questa constatazione, tanto ripetuta fino a diventare banale o semplicemente stucchevole, qualcosa di più di un calcolo numerico e di una previsione statistica; i fatti, anche solo quantitativi, ci rimandano un appello che viene dall’alto. Se i numeri sono questi, allora il Signore ci chiede di lavorare con i numeri che abbiamo, con quelli che siamo. E che cosa significa lavorare con i numeri che abbiamo? Significa che tu non puoi lavorare il doppio di quanto faceva un prete serio e impegnato in altri tempi con la metà degli impegni rispetto a quelli di oggi. E se non puoi lavorare il doppio o il triplo, perché umanamente non si può reggere, allora bisogna ricorrere ad altre risorse, perché molte cose di quelle che fai le possono fare altri, battezzati e credenti disponibili a dedicarsi alle esigenze della comunità. E lo possono fare perché richiesto dalla missione cristiana e perché tutta la Chiesa è missionaria.

Queste altre risorse sono i diaconi permanenti e i laici, siano essi laici con ministero istituito o straordinario, o semplici credenti che sono disponibili a collaborare alla vita della Chiesa. Oggi scopriamo che siamo in ritardo su quanto la Chiesa ci chiede, a partire dal Vaticano II, per diventare sempre di più una Chiesa sinfonica, in cui non c’è solo il direttore d’orchestra, ma anche gli strumenti musicali e i vari musicisti. Se non cominciamo ora a operare in questa direzione, fra qualche anno sarà troppo tardi.

Vorrei richiamare la vostra attenzione su una tentazione specifica che si può insinuare. E la tentazione è questa: siccome io non posso fare di più, e anzi riesco a fare sempre meno, continuo come ho sempre fatto anche se i fedeli riceveranno sempre meno perché io non ci arrivo più. La tentazione sta nel penalizzare chi attende la parola del vangelo, il sostegno della preghiera e dei sacramenti, perché si trova privato del nutrimento necessario. E nutrimento necessario è la parola di Dio, insieme all’Eucaristia, è la preghiera, è la rete di relazioni coltivate nel Signore per fare comunità cristiana. Se non ci sono abbastanza preti, la grazia di Dio deve trovare altri canali e modalità per essere messa a disposizione di quanti l’attendono. E se non trova altri canali predisposti da noi, la grazia di Dio si farà strada attraverso altre vie, al di fuori di noi e delle nostre strutture e organizzazioni, poiché gratia non est alligata sacramentis, come recita l’antico adagio medievale. Con il risultato però che saremo noi sempre più esclusi dal flusso della grazia che vuole raggiungere tutti: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,29). Si tratterà allora di concentrare il ministero presbiterale su ciò che solo esso può dare, e fare spazio alle più diverse collaborazioni per tutto ciò che può essere affidato a diaconi e laici.

Noi preti siamo chiamati a lavorare sulla qualità del nostro ministero, sulla cura di noi stessi: preghiera, studio e riflessione, guida della comunità nella comunione e nella carità, predicazione e dialogo spirituale. Un tale ampliamento non può avvenire disordinatamente o da un giorno all’altro; ha bisogno del suo tempo. Ma si tratta di cominciare subito.

Sento già una obiezione che va pure riconosciuta vera: non ci sono laici formati. Non rispondo – cosa che sarebbe legittima – rimproverando per ciò che non abbiamo fatto per il passato. Dico però che non si può chiedere ai laici un percorso formativo come quello all’ordine sacro, si tratta invece di agire in tre direzioni. La prima dice che bisogna cominciare immettendo i laici nel servizio e accompagnandoli con il nostro ministero; come abbiamo sperimentato anche noi, si impara con l’esperienza, strada facendo, non soltanto con la formazione intellettuale. La seconda direzione sta nella cura della vita spirituale. La formazione decisiva, anche per noi preti, è quella che accompagna la crescita del credente verso una maturità umana animata e guidata dalla relazione con il Signore. Quando abbiamo fatto questo? Come potremmo e dovremmo farlo? La terza direzione, infine, è la conoscenza dei contenuti e delle motivazioni della fede, cosa su cui in particolare la diocesi può offrire aiuto e collaborazione.

Diocesi e parrocchie si possono aiutare a promuovere una formazione sul piano della conoscenza, ma la formazione spirituale deve fare perno sulla parrocchia o sul territorio interparrocchiale; ancora di più, la responsabilità può essere esercitata in tutti gli ambiti parrocchiali. Sento già la difficoltà ulteriore che viene talora sollevata, e cioè quella che sorge dall’aver a che fare con persone che vogliono farsi spazio, creano contrasti e divisioni, tendono a monopolizzare e cose simili. È una questione delicata, ma simili problemi non sono poi così diversi da quelli che talora si riscontrano tra preti e tra diaconi. Si tratta di imparare sempre di nuovo a valutare, accompagnare, consigliare, indirizzare, correggere e, soprattutto, promuovere comunione. In ogni caso, è una necessità muoverci presto in questa direzione e anche questa difficoltà non deve impedirlo. Se poi il Signore ci concederà nuove vocazioni al presbiterato – come speriamo e preghiamo costantemente – allora si troveranno modi nuovi per collaborare e costruire comunità missionarie, ma non si potrà tornare indietro da un modello di comunità in cui tutti siano integrati e attivi, poiché non è più possibile, per ragioni teologiche e non per ragioni di calcolo o di necessità, che le comunità siano gestite – e dico gestite, non guidate, perché la guida è del presbitero – in tutto solo dai preti.

A questo punto credo di poter concentrare l’attenzione su tre compiti specifici: l’esigenza di fondo, l’obiettivo di fondo, gli strumenti indispensabili.

Quanto all’esigenza di fondo, sono convinto che essa sia la qualità della vita spirituale, innanzitutto dei presbiteri e dei diaconi, e poi di tutti i fedeli disponibili e accompagnati adeguatamente. La qualità spirituale del presbitero e del diacono consiste semplicemente in un rapporto innanzitutto personale, e quindi anche ecclesiale, con il Signore. L’impegno della preghiera e della meditazione quotidiana, della preghiera e della celebrazione con la comunità, dello studio e della lettura sia davvero l’anima di ogni autentica esperienza spirituale e anche, oserei dire, di un fondamentale equilibrio personale, soprattutto per noi preti. E poi ha una enorme importanza la possibilità di un dialogo spirituale con qualcuno, sul piano personale o di gruppo. Troppo spesso la nostra spiritualità è stata non tanto personale ma individualistica, privatistica, quasi che nulla della vita dovesse entrarci, ma anche con l’effetto che nulla della spiritualità potesse entrare nella vita.

È questa una esperienza purtroppo diffusa, così che siamo portati a chiederci: che cosa dovrebbe attirare in noi chi dovrebbe incontrare Cristo e addirittura seguirlo con una vocazione speciale? Che cosa c’è umanamente in noi capace di indirizzare a Cristo, non per l’abito che portiamo ma per le persone che siamo? Per questo la prima cura deve essere verso noi stessi. Ma non soltanto la cura della salute e dell’equilibrio personale, bensì anche la cura della interiorità e della forza delle motivazioni. Permettetemi di aggiungere, a proposito di questo, una osservazione. Spesso tra di noi notiamo, o anche altri notano e fanno notare, che siamo scontenti o che alcuni mostrano di essere tali. Quando uno è scontento, non riesce a nasconderlo, perché in un modo o in un altro la cosa viene fuori. Mi permetto di dire che questo è un elemento nocivo e perfino deleterio nella nostra vita come nella vita di chiunque. Non mi riferisco all’irritazione o al malumore che quotidianamente una vicenda o l’altra possono provocare. Mi riferisco a uno stato permanente di scontento, di insoddisfazione, di delusione, con tutte le conseguenze di amarezza, di pessimismo che alla fine può trasformarsi in astio e rabbia.

Ritengo che sia estremamente importante riconoscere un tale stato d’animo, con il relativo modo di pensare, quando fosse permanente, duraturo, perché è qualcosa che fa male, e fa male innanzitutto a chi lo ha, un simile stato d’animo. Riconoscerlo significa capire se stessi e cercare la via per ritrovare la pace con se stessi. È evidente che le cause fuori di noi per lamentarci, con ragione, di molte cose che non vanno ce ne sono a iosa. Il problema è che il nostro scontento non ce lo può togliere nulla fuori di noi, perché ci saranno sempre cose, situazioni e persone che ci fanno male o, quantomeno, ci danno fastidio. La nostra serenità dipende fondamentalmente da noi stessi, dall’accettazione di noi stessi, della nostra storia, della nostra situazione. È a questo livello che si pone il rapporto con Dio, al livello della accettazione di noi stessi in rapporto e alla presenza di Dio. L’ideale spirituale, la spiritualità cristiana, possiede sempre una caratteristica fondamentale, che consiste nella gioia e nella gratitudine, anche umanamente percepibile, per la coscienza e l’esperienza di essere amati da Dio. E questo non ce lo può togliere nessuno; il punto è crederci per davvero, senza riserve. Mi sono permesso di dire queste cose perché ritengo siano fondamentali, in generale. Tali certamente sono per me.

Vado più velocemente sugli altri due punti. Il secondo riguarda l’obiettivo di fondo. Esso consiste in questo: tutta la nostra azione pastorale si racchiude nello sforzo di costruire comunità di credenti umanamente significative. Qualcuno vuole ancora fraintendere il nostro Percorso dell’Iniziazione Cristianascambiandolo per una guida pedagogica rivolta a bambini. Questo è semplicemente falso, frutto di ignoranza o di malafede. L’obiettivo di tale Percorso è semplicemente l’analogo ecclesiale di quello che dovrebbe avvenire in una famiglia, nella quale i genitori e gli adulti realizzano la loro vita di adulti accompagnando i piccoli che crescono e mostrando con il loro esempio che cosa significa essere umani e, nel nostro caso, cristiani. Costruire comunità che siano famiglie ecclesiali, questo è l’obiettivo, perché questa è la modalità per vivere il cristianesimo oggi e per compiere la missione ecclesiale: trovarsi tra persone che stanno insieme e si aiutano nel nome di Gesù. Non importa se sono grandi o piccole, purché siano comunità, sempre aperte e accoglienti, ma segnate da rapporti autentici.

Ci sono parrocchie che hanno una ottima organizzazione dei servizi religiosi o anche delle attività formative e ricreative. Finché esse potranno riuscire a funzionare andrà bene, ma di tanta nostra azione rischia di non restare molto – fatta salva sempre la grazia di Dio – se non si formano nuclei di fraternità cristiana significativi e riconoscibili.

L’ultimo punto riguarda gli strumenti indispensabili. Questi sono semplicemente tutto l’aiuto che riusciamo a prestare alle persone per la loro formazione: far fare esperienze, aiutare a incontrare il Signore e a pregarlo e ad amarlo, offrire opportunità di formazione biblica, teologica, culturale. In questo ambito dobbiamo aiutarci più che in altri. Le iniziative che intraprendiamo solitamente con i corsi della Scuola diocesana di teologia e i corsi di formazione proposti dagli uffici vanno in questa direzione. Non sono le uniche forme, ma sono senza dubbio importanti nel quadro delle finalità loro proprie. Di collaboratori pastorali che abbiano qualche sensibilità e competenza abbiamo bisogno in tutti i settori. È chiaro che i principali sono quelli che riguardano la parola, l’Eucaristia, la catechesi, la carità, il servizio liturgico, senza trascurare tutti gli altri. Ad essi, particolarmente i ministeri istituiti e il ministero straordinario della Comunione dobbiamo cercare di offrire il meglio e di aiutarli a crescere nella coscienza e nella qualità del servizio. Mi piace ricordare che in questi mesi ci dedicheremo a rivedere, dopo un periodo di sperimentazione di alcuni anni, i sussidi e gli orientamenti pastorali che sono attualmente in vigore, sui padrini, sui battesimi degli adulti, sulle cresime degli adulti. Sarà opportuno, da parte di tutti voi, far giungere osservazioni e proposte, affinché gli strumenti necessari a offrire una guida alla comune azione pastorale rispondano alle esigenze del cammino di fede di quanti si rivolgono a noi.

A mo’ di appendice, voglio solo accennare a un settore delle nostre responsabilità e dei nostri impegni che chiederà una attenzione specifica. Mi riferisco alle questioni di ordine amministrativo, gestionale e tecnico. Spesso si tratta di impegni che tolgono tempo e serenità, e che sono senza dubbio, nell’attuale ordinamento canonico, di competenza del parroco. Tuttavia ci sono ampi spazi in cui la collaborazione può essere ottenuta sia da parte dei laici sia da parte della diocesi. Spero di trovare presto un’occasione in cui trattare distesamente di tali questioni e individuare le modalità adeguate per aiutarci al meglio a vicenda.

Facciamo tesoro delle riflessioni che abbiamo fatto. Vi chiedo di fermarvici in questo periodo, più intenso per certi versi ma più propizio per altri. Avviamo un dialogo più vivo e partecipato con il Signore e tra di noi. Sono fiducioso che vedremo frutti inattesi. È questo il mio augurio natalizio di quest’anno

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