Lettera Pastorale 2022/2023: “Per la vita del Signore… alla cui presenza io sto” (1Re 17,1; 18,15) – Desiderio di spiritualità

“Per la vita del Signore… alla cui presenza io sto”

(1Re 17,1; 18,15)

Desiderio di spiritualità

Lettera pastorale 2022-2023

✠ Mariano Crociata

 

La nostra situazione “spirituale”

Sono in parecchi a denunciare l’affanno con cui si conduce di questi tempi l’esistenza dei più. Siamo sempre di corsa, con la paura di arrivare in ritardo o di perdere un appuntamento importante. L’ansia rimane una nota dominante di quest’epoca e il ritmo della vita sociale ed ecclesiale ne è un sintomo inequivocabile.

Nella nostra diocesi siamo ormai alla fase di completamento della riorganizzazione del Percorso dell’Iniziazione Cristiana e, con le Chiese d’Italia, ci avviamo al secondo anno del Cammino sinodale. Se a questo aggiungiamo le incombenze pastorali ordinarie e straordinarie, constatiamo che la fatica c’è, e grande. Quel che conta è, però, l’animo con cui affrontiamo tutto. Allora troviamo chi si getta a capofitto, salvo poi trovarsi esausto; chi programma ogni cosa con cura, ma presto sperimenta la delusione per lo scarso riscontro e riconoscimento che l’impegno profuso ottiene; chi lavora con coscienza, ma prova dentro un senso di inutilità e di frustrazione perché sente di non possedere più con la dovuta chiarezza il motivo e lo scopo di ciò che fa; non manca infine chi – in contrasto con l’andazzo generale – fa il minimo indispensabile, cerca di prendersela comoda, non si spende più dello stretto necessario, ma non riesce a rimuovere il vuoto che gli cresce dentro.

Se allarghiamo lo sguardo al nostro tempo, segnato da profondi cambiamenti, spesso sconvolgenti anche per i credenti, riconosciamo nella vita della chiesa stile e vitalità variamente presenti da un continente all’altro, e tuttavia i motivi di preoccupazione inquietano tutti sotto qualsiasi latitudine. Il ridimensionamento quantitativo, che tocca tutti gli ambienti ecclesiali, è solo il segnale di qualcosa di più profondo. Soffriamo un abbassamento della qualità della vita cristiana, per effetto di un mutamento culturale e morale che ha intaccato anche noi. Il dramma degli scandali che in vario modo hanno sconvolto la chiesa sta lì a denunciarlo, sì come caso limite, ma proprio per questo con impressionante spietata durezza.

Si fatica soprattutto a trovare entusiasmo, fervore, ardore. Autorevoli osservatori da tempo rilevano un clima sociale di disincanto e di disillusione. Le ultime vicende legate alla pandemia, alla guerra in Europa, alla crisi economica che conosce una nuova fase nei costi dell’energia, aggravano la percezione di un clima generale che vede intaccata la qualità dell’interesse e della partecipazione, non solo religiosa, dove si dà, o la scoraggia ulteriormente in chi si colloca già ai margini. È facile che si ingeneri un atteggiamento di rassegnazione e di scarsa fiducia, che impedisce di alzare lo sguardo, trovare motivi di speranza, risvegliare forza e coraggio per decidersi e agire.

Sembra essere diventato terribilmente difficile condurre con serietà ed esemplarità una vita da cristiani. A fronte di esempi sorprendenti di santità, si registra un calo di tensione spirituale e morale. Lo stile di vita proposto dal mondo di oggi e un po’ tutta la cultura dominante vanno spesso in direzione opposta al modello di pensiero e di vita ispirati dal vangelo. Non mancano anche al di fuori del nostro orizzonte espressamente credente esempi di generosità, di solidarietà, di ricerca di senso, e tuttavia non solo il più delle volte non riusciamo a entrare in dialogo con quegli esempi, ma facciamo fatica a trovarne in mezzo a noi. Il costume, sempre più diffuso, segnato dal consumismo, dalla ricerca del piacere e dell’evasione, dalla chiusura nel privato e dall’individualismo, dall’indifferenza, se non dall’ostilità, nei confronti di chi sta male o è più debole, nei confronti degli immigrati, nei confronti dei drammi di interi popoli e nazioni, e nei confronti del degrado che subisce l’ambiente: tutto questo a volte sembra colpire anche noi che non abbiamo dubbi nel considerarci cristiani.

L’effetto di questa situazione si coglie nella difficoltà a trasmettere e a mostrare comprensibile, e anzi affascinante, il messaggio cristiano, ma forse prima ancora a percepirlo nitidamente noi per primi. È sceso un velo di torpore e di appannamento sulle nostre coscienze e sul nostro sentire profondo, che non riesce a risvegliarsi ad una passione coinvolgente di amore per il Signore, per la chiesa, per questo nostro mondo così provato, vicino e lontano da noi.

Non c’è dubbio che questo è il punto in cui ci troviamo e ciò che siamo chiamati ad affrontare. Esso non chiede un compito in più, o un lavoro aggiuntivo, ma un modo diverso di vivere e di fare le cose. Ci vogliono occhi nuovi, un cuore più libero, pensieri più agili per sperimentare dentro l’ordinario il senso del nostro vivere. Il segreto sarebbe trovare il modo di reinventarsi ad ogni passo, di ritrovare leggerezza e freschezza ad ogni nuovo giorno che Dio manda sulla terra, di imparare a non farsi schiacciare da tutto ciò che opprime il cuore e la mente con la sfilza di occupazioni e preoccupazioni che assillano dalla mattina alla sera.

Nonostante tale stato di cose, la resistenza che è capace di esprimere la nostra fede non ci autorizza a scoraggiarci; la nostra fiducia non può venir meno. Del resto, non è la prima volta che la storia cristiana conosce tempi di prova. Dobbiamo credere nella possibilità di rialzarci, di ritrovare lucidità e fermezza, volontà chiara e passione ardente di amore per il Signore e per il suo progetto di bene in noi e attraverso di noi.

La domanda che si impone è: da dove ricominciare? Che cosa potrà restituirci un nuovo desiderio di Dio? Che cosa può rigenerare la nostra vita? La Parola di Dio in realtà ce lo annuncia a più riprese. È il Signore che può e vuole darci un cuore nuovo, mettere dentro di noi uno spirito nuovo (cf. Ez 11,19; 18,31; 36,26; Ger 31,33), fare di una distesa di ossa inaridite un popolo nuovo (cf. Ez 37,1-14). E allora, che cosa possiamo fare per invocarlo efficacemente, per propiziarlo così da aprirci e diventare malleabili come creta e cera nelle mani del creatore e Signore? La risposta sta in un cammino di vita ostinatamente condotto alla presenza del Signore, come ha fatto il profeta Elia, una figura che domina la storia di Israele e che influenza profondamente anche lo scenario neotestamentario.

In cammino con Elia

Elia vive in un’epoca – il IX secolo prima di Cristo – nella quale i governanti di Israele si sono allontanati dal Dio vivo e vero per andare dietro a idoli e pratiche aberranti. Elia sente ardere dentro di sé un fuoco di fronte all’allontanamento del popolo da Dio e di fronte alle profanazioni e alle ingiustizie consumate. Con una interiorità viva e consapevole del Dio unico (non a caso il nome Elia significa: Jahvé è Dio), alla cui presenza egli sente di stare costantemente, avverte di essere chiamato a coltivare una fede pura e a difenderla in tutta la sua integrità. La figura di Elia parla con eloquenza straordinaria ancora oggi attraverso alcune poche scarne ma incandescenti scene del ciclo letterario che la Scrittura gli riserva.

Una prima la troviamo nella presentazione che egli fa di sé: «Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto» (1Re 17,1; anche 18,15). Un’autopresentazione asciutta, essenziale e ardente allo stesso tempo. Per il profeta Dio è il Vivente, per eccellenza. Ed egli sta alla presenza perché da lui viene la vita, la sua vita; egli è vivo grazie a Dio. E non può che vivere per lui. Elia vive se stesso come presente a Dio, semplicemente. Stare alla presenza è il senso della sua vita, con una assolutezza che fa sbiadire tutto il resto. La chiamata di Dio ad essere profeta ha afferrato la sua persona, fino ad assorbirlo interamente, lasciando apparire l’inconsistenza di ogni altra cosa. Elia ha imparato a riconoscere e ad ascoltare la nuda voce di Dio. Uomo dell’assoluto di Dio, egli lo ascolta e lo cerca come unico riferimento delle sue scelte, spesso drammatiche, e delle sue azioni. Stare alla presenza è il suo compito, l’unica passione che divora tutte le sue energie. Stare alla presenza del Vivente è vivere davvero, l’unico modo di vivere, in una adorazione che vede il cuore slanciarsi con ardore di fede e rende la persona, il tempo, gli incontri, gli eventi, occasioni e motivi per rendere gloria all’Unico.

Certo, fa pensare che proprio questa purezza di fede, questo fuoco d’amore, questa dedizione senza riserve appaiano oggi come qualcosa di impossibile, di irraggiungibile, di impensabile. L’attuale è un tempo di passioni finte, dalla patina scialba come un velo incolore steso su ogni cosa, una stagione di emozioni grevi, di sentimenti superficiali. Che calore può dare una fede così mascherata e ridotta, che fascino può avere, che richiamo può esercitare? Quale potere di trasformazione dell’esistenza da una interiorità senza nerbo e vigore spirituale?

È una straordinaria energia profetica quella che troviamo nella scena della sfida ai profeti di Baal sul monte Carmelo, che si conclude con il loro sterminio (cf. 1Re 18,20-40). Qui Elia è potentemente trascinato dalla sua fede pura e dal suo ardore per la difesa dell’unico Dio di Israele, tradito proprio da quel re che doveva essere la guida e il campione della fedeltà del popolo all’alleanza. Non siamo di fronte a un fanatico, ma a un profeta che sente sulle sue spalle tutto il peso del dramma del suo popolo, tra siccità, carestia, idolatria, e se ne fa carico senza risparmiarsi e con un senso di responsabilità che, al cospetto di Dio, vuole il bene e la salvezza del suo popolo. Egli è in realtà soprattutto un portatore di vita, come quando annuncia o propizia l’arrivo della pioggia (cf. 1Re 18,41-45) o quando ridona la vita al figlio della vedova (cf. 1Re 17,17-22).

La domanda che suscita è se ci possa essere, oggi, qualcosa su cui buttarsi a capofitto, senza riguardi, opportunismi, calcoli di convenienza, e se si trovi qualcuno che ne sia capace. Dobbiamo considerare proprio finito il tempo in cui era possibile spendersi fino al punto di mettere tutto a repentaglio pur di salvaguardare la gloria di Dio e il bene e la dignità della persona umana? Non mancano, certo, martiri che muoiono per la fede e la giustizia. Si deve, però, constatare che quando questa passione alta si spegne, altre passioni sorgono, pronte per motivi di ricchezza e di potere – gli idoli di sempre – a fare strage di umanità e di fede.

Il campione della purezza della fede nel Dio unico dovrà fare esperienza anche della propria debolezza, della paura di fronte alla minaccia per la sua vita (cf. 1Re 19,3), del senso di sconfitta e di inutilità, se non di depressione («Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”», 19,4). La perdita della voglia di vivere è anche conseguenza della falsa sicurezza sulla propria fedeltà e della sfiducia verso gli altri («Sono pieno di zelo per il Signore», 19,14; «Sono rimasto solo», 19,10, a cui il Signore risponde: «Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone», 19,18).

Siamo di fronte ad atteggiamenti e stati d’animo che non facciamo fatica a riscontrare nella nostra esperienza. Gli insuccessi pastorali e la constatazione della perdita di incidenza e di consenso attorno a noi inducono facilmente senso di smarrimento, timore di perdita, pessimismo fino al disfattismo. È una tentazione ricorrente, che proprio la prova di Elia chiede di contrastare. Il ridimensionamento e gli insuccessi sono prove per la fede, non la sua fine. C’è una fede che vive e cresce spesso come e dove noi non immaginiamo. Come poi lo stesso Elia farà, su comando del Signore (cf. 1Re 19,15-17), passerà ad altri il testimone, primo fra tutti a Eliseo (cf. 19,19-21), a cui toccherà prendere in mano la missione e portarla avanti, con una fede altrettanto viva e forte. Con la sua esperienza di debolezza Elia continua a insegnarci ad affrontare tempi difficili come i nostri senza perdere fiducia e speranza, ma consegnando totalmente la vita a Dio e dedicandoci con cuore libero e pronto alla missione affidata.

Alcuni precisi riferimenti ci illustrano persuasivamente dove trovare la forza per riprendere il cammino dopo il fallimento e lo scoraggiamento, in una situazione di prova estrema, o anche solo di fronte alle resistenze a lasciare le comode e facili sicurezze che portano a cedere ad altro il primato di Dio, la sua assolutezza, la fede pura in lui. Essi parlano del pane, della carne, dell’acqua di cui Elia ha bisogno o va in cerca e di cui ha bisogno, come al torrente Cherit, dove viene nutrito dai corvi (cf. 1Re 17,4-6), o nell’atto di rivolgersi alla vedova di Sarepta (cf. 17,10-11) o quando, nel deserto, desideroso di morire, viene misteriosamente svegliato e soccorso a più riprese da un angelo (cf. 19,5-8).

Il pane di Dio (perché anche quello della carità della vedova è pane di Dio) è l’unico nutrimento che ci rimette sulla strada, ci mette in grado di camminare, di andare verso il monte di Dio, di fare della vita un cammino verso la realizzazione in Dio. Oggi la chiesa, nella pienezza della verità della rivelazione e della grazia della vita nuova, ci apparecchia la tavola della Parola di Dio e ci ammette alla mensa eucaristica. Senza l’una e l’altra non si ritorna in sé, non si riemerge dallo sprofondo in cui siamo caduti. E bisogna cercare con ostinazione quel cibo benedetto sapendo che la fede pura ne è la condizione e il frutto, in una circolarità virtuosa senza fine che conduce «fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

Una scena culminante è quella in cui Elia si nasconde in una caverna, dalla quale Dio lo tira fuori e lo invita – questa volta è lui a chiederglielo – a fermarsi «alla presenza del Signore» (1Re 19,11). Elia è vissuto sempre alla presenza di Dio, ma egli non ha avuto di suo la capacità di farlo adeguatamente, mostrando anzi di oscillare tra fervore e timore. È Dio che fa stare alla sua presenza.

Proprio qui troviamo una indicazione decisiva. Nel momento della prova e dello sconforto Elia sente il bisogno di fuggire dal pericolo. Nell’abbandono dello sfinimento egli riceve il soccorso dall’alto. È il nutrimento approntato dall’angelo che dà a Elia la forza di vedere risvegliare in sé il richiamo di Dio, il desiderio di lui, la possibilità di riprendere il cammino fino al monte di Dio, l’Oreb. Sostenuto e nutrito dall’angelo, egli arriva alla sua presenza. È Dio che chiama, risveglia il desiderio e dà la forza di andare a lui; e al momento decisivo rivolge la domanda cruciale al profeta che nella caverna aveva passato la notte, dalla quale ora lo trae fuori: «Che cosa fai qui, Elia?» (1Re 19,13). Una domanda che evoca in noi reminiscenze abissali, prima fra tutte la domanda di Dio ad Adamo nel giardino: «Dove sei?» (Gen 3,9).

Dio si rivolge all’uomo: da qui tutto comincia. Egli prende l’iniziativa nei confronti della sua creatura e lo fa interpellandola, con la premura e allo stesso tempo la puntualità che solo il creatore può avere. Il suo domandare si dirige al cuore della persona, alla sua coscienza, risvegliando ciò che rimane sopito e inerte fino a quando non venga raggiunto dalla voce che sola può essere riconosciuta. Elia, al pari dell’uomo uscito dalle mani del creatore, è fatto per ascoltare quella voce e la domanda che essa porta, unicamente suscettibile di far prendere coscienza, di far capire dove egli si trova, con chi ha a che fare, che cosa può sperare, che cosa deve fare.

La voce invita a stare alla presenza (cf. 1Re 19,11), scrutando attraverso i fenomeni più disparati dove riconoscerlo e incontrarlo, per fermarsi e stare. Elia non incontra Dio nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma solo nel «sussurro di una brezza leggera» (19,12); solo allora si ferma. Vive così un momento di rapimento e di intimità profonda, ma anche di riconoscimento e quasi di scoperta di chi è Dio e di come lo si deve cercare e incontrare, perché egli ha toccato con mano di essere stato riconosciuto da Dio e di essere già suo.

La forma adottata da Dio per il suo riconoscimento è così fine e delicata, da rendersi quasi impercettibile. Forse che Dio non vuole farsi conoscere e incontrare? Certo egli rifugge dall’essere confuso con gli idoli. Perciò attende che la creatura si apra, si lasci risvegliare dentro, porti fuori ciò che ha nel cuore nel momento in cui avverte l’intima corrispondenza con colui che l’ha fatta e le ha impresso intimamente qualcosa di sé. La voce che fa vibrare il cuore della creatura sa di trovare in essa corde che possono risuonare solo nell’atto di percepire il suo suono. Intima corrispondenza di pensieri, di cuore, di emozione, di amore, di fiducia sconfinata, di pace profonda. Tutto si fonde nella percezione infinitamente delicata del Dio che ti ha preparato e ti ha atteso, e senza ripensamenti non si stanca di aspettarti per incontrarti e stare con te.

Incontrare Dio vuol dire affinare la propria sensibilità, portarsi ad un livello di silenzio, di attenzione, di disponibilità all’ascolto che raggiunga la predisposizione a percepire quanto ci può essere di più tenue, delicato, fine. Sullo sfondo dell’immagine di Dio che il messaggio biblico nel suo insieme trasmette, si intende la richiesta di portarsi ad un livello di attenzione e di sensibilità capace di abbassarsi fino al punto in cui Dio si ritira, si ritrae, quasi si nasconde. Non per un gioco, ma perché tale è la forma di Dio, misteriosa e incomprensibile, inafferrabile e tuttavia disponibile quando incontra la disponibilità estrema della creatura a lasciarsi toccare e risvegliare nel più intimo della sua sensibilità e della sua identità, perfettamente rispondente e sintonico con colui che chiama.

Dio vuole essere cercato nella forma della ricettività estrema, non in quella dell’imponente e dello schiacciante. Nel Nuovo Testamento questo appare ancora più chiaro e di tutta evidenza, poiché in Gesù Dio sceglie l’ultimo posto, il piano più basso (cf. Fil 2,5-11), il punto estremo del livello umano. Per incontrare il Dio rivelato bisogna imparare a portarsi lì, dove lui ha scelto di porsi e di stare. Perché è proprio lì che si trova anche la verità dell’umano. E da lì soltanto si può veramente ripartire per un nuovo cammino, anzi per una missione, come quella che Elia riceve per intraprendere il cammino nel quale ormai sa ed è certo di essere una cosa sola con colui che lo ha inviato.

Nella luce che si diffonde dall’impressionante figura di Elia, diventa immaginabile e desiderabile un rinnovamento spirituale, un recupero di interiorità credente nel modo di vivere e di stare al mondo. Una vera spiritualità, una spiritualità all’altezza di questo tempo e dell’umanità di oggi, ha bisogno di recuperare un senso vivo di Dio, della sua alterità e trascendenza, dell’esigenza fondamentale di riconoscerne il primato e l’assolutezza, per cominciare a farne pragmaticamente il centro permanente di ogni movimento di coscienza, di ogni orientamento della volontà, di ogni apertura della libertà. Un risveglio di spiritualità diventa immaginabile solo con il rinascere del desiderio, e innanzitutto del desiderio di Dio, attraverso quel tocco intimo che fa entrare in sintonia e in vibrazione armonica il cuore dell’uomo e il cuore di Dio.

Un tale risveglio, più che porre in una condizione trasognata di evasione dalla realtà, inserisce ancora di più in essa – come è stato per Elia – con quella visione lucida che solo Dio può dare circa il valore di cose, situazioni e persone, e con quel senso di responsabilità conseguente che rende veri protagonisti dell’umano comune e attori delle sue vicissitudini storiche. 

Nella forza dello Spirito

La vicenda profetica di Elia ha una profonda incidenza nella storia del popolo di Israele. La sua grandezza lo inserisce come figura integrante di quell’attesa messianica che lo porterà a entrare e a intrecciarsi anche nell’esperienza di Gesù e dei suoi primi seguaci nel loro sforzo di comprensione dell’identità e della missione del Cristo (cf. Mt 11,4; 16,14; 17,3-4.10-12; 27,47.49; Mc 6,15; 8,28; 9,4-5.11-13; 15,35-36; Lc 1,17; 4,25-26; 9,8.19.30.33; Gv 1,21.25).

Gesù si presenta come l’uomo che vive pienamente nello Spirito. Fin dall’inizio la fede cristiana ha visto in lui l’uomo che si è condotto sempre nella coscienza del suo rapporto filiale con il Padre, in una intimità con il Padre nello Spirito tale che niente avrebbe mai potuto distoglierlo dal pensiero e dall’amore per l’uno nell’altro. La sua umanità ha sperimentato con una intensità insuperabile la comunione delle persone divine. Di questo è manifestazione tutta la sua esistenza così come la cogliamo dalla narrazione evangelica e, in particolare, da alcuni segni singolarmente espressivi di questa sua coscienza e della relazione totalizzante nella quale si riassume ogni aspetto della sua esperienza umana. La sua coscienza di avere Dio come padre personale era continuamente sostenuta dalla luce e dall’amore dello Spirito Santo.

Uno dei segni più eloquenti lo troviamo nel bisogno incessante che Gesù avverte e asseconda di ritirarsi in preghiera, sul monte o in luoghi solitari, di notte o di giorno, per stare a tu per tu con il Padre nell’amore comune dello Spirito (cf. Mt 26,39.42.44; Mc 1,35; 14,35.39; Lc 3,21; 9,29; 22,41.44.45; Gv 6,15). Da questo centro ardente di comunione divina scaturisce tutto ciò che Gesù dice e fa. Fare la volontà del Padre è l’unico, assorbente, desiderio di Gesù. L’evangelista Giovanni lo attesta a più riprese, facendo dire a Gesù, o affermando, che tutto ciò che egli dice e fa gli viene dal Padre (Gv3,35; 5,17-26.36; 6,37.45; 8,28.38.54; 10,25.29; 12,49-50; 14,31; 15,15; 17,21). Essere in comunione con Dio e fare la sua volontà sono per Gesù inscindibili. Fare la volontà del Padre è per Gesù la sua volontà più propria, perfino nel momento supremamente drammatico e lacerante dell’angoscia di fronte alla croce e alla morte (cf. Mt 26,42; Lc 22,42; Mc 14,36; anche Gv 4,34; 5,30; 6,38-39).

La volontà del Padre si riassume per Gesù nell’adempimento della missione che egli gli affida. Essa si racchiude, secondo i sinottici, nell’annuncio e nell’avvento del Regno di Dio, mentre in Giovanni domina l’appello alla conoscenza e all’accoglienza di colui che il Padre ha inviato. In Gesù è all’opera la presenza personale stessa di Dio; accoglierlo o rifiutarlo equivale ad accogliere o rifiutare Dio stesso. Tutti i vangeli mettono in evidenza che la signoria di Dio, resa presente in Gesù, porta con sé la guarigione dei malati e la liberazione dei posseduti dal maligno, in altre parole un profondo rinnovamento della condizione umana e dell’umanità come tale. Tutti i malati, i poveri, gli infelici, perciò, vanno a Gesù, una volta che hanno avuto notizia che in lui trovano guarigione, liberazione, salvezza. Al culmine di tutta l’opera di Gesù sta la sconfitta del male e del peccato. In una sintesi insuperabile perdono dei peccati e guarigione mostrano la loro profonda connessione nella guarigione del paralitico (cf. Mt 9,5-6; Mc 2,9-11; Lc 5,23-24), manifestazione singolarmente espressiva della presenza di Dio in Gesù e dell’avvento del suo Regno.

La consumazione di tutto il suo essere e della sua missione sulla croce è il momento in cui la ‘spiritualità’ di Gesù tocca il suo vertice, poiché lo Spirito prende a tal punto possesso del suo essere da spiritualizzarlo interamente nell’offerta suprema d’amore in cui la sua umanità diventa una cosa sola con la sua persona divina nel dono di sé al Padre per i fratelli. In questo modo Gesù ha raggiunto pienamente se stesso, ha dato perfetta attuazione alla sua identità e alla sua missione; nel lasciarsi totalmente assorbire dal Padre nello Spirito egli diventa, anche umanamente, compiutamente se stesso nella comunione consumata delle persone divine. È ciò che manifesta la risurrezione, vittoria sul male e sulla morte e affermazione della vita di Dio nell’umanità di Gesù.

Egli ha compiuto tutto questo per noi, perché anche noi – con tutti i credenti in lui – lo raggiungiamo in quella pienezza di umanità e di vita in cui consiste il vivere nello Spirito. È questo il senso dell’invito insistente di san Paolo: «camminate secondo lo Spirito» (Gal 5,16); «se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25). Il suo invito scaturisce dalla consapevolezza che qualcosa di inaudito è avvenuto per noi: «perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Lo Spirito è stato riversato nel cuore dei credenti grazie a Cristo Gesù e alla sua Pasqua di morte e di risurrezione.

La vita secondo lo Spirito ha perciò un carattere teologale, cioè è la rigenerazione dell’esistenza e della condizione umana per effetto dell’iniziativa di Dio operante dentro di essa: del Padre che ha mandato il Figlio Gesù e con Gesù ha donato lo Spirito Santo. Con Gesù nello Spirito Dio dona tutto se stesso, la sua stessa intima vita trinitaria in cui circola l’unico amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre nello Spirito dell’uno e dell’altro. È ciò che avviene quando scocca la scintilla della fede nell’incontro con Cristo Gesù. Sta qui il punto di accesso alla vita secondo lo Spirito, in quella fede che, quale primo dono di Dio, aprendo il cuore umano al senso della sua presenza, dà allo stesso tempo la coscienza di essere veramente se stessi e di trovarsi in piena corrispondenza di sentire e di essere con colui che è stato incontrato.

In questa luce di fede si acquisisce una nuova consapevolezza di sé e della realtà attorno a sé, un modo nuovo di sapere se stessi, la propria storia e la propria identità, le relazioni e il contesto, il progetto di vita e il futuro, e di conseguenza un modo nuovo di rapportarsi con sé stessi, con gli altri, con l’ambiente che ci circonda, insieme alle responsabilità che ne discendono. 

Camminare secondo lo Spirito

Incontro e chiamata

Incontro e chiamata sono queste le due dimensioni da avere sempre presenti e da cui sempre ricominciare, perché tutto nasce da lì, dall’incontro con Dio in Gesù, dalla corrispondenza intima sperimentata con lui e dall’appello ascoltato, che ci ha tirato fuori da noi stessi, per farci scoprire che solo uscendo da noi stessi ci saremmo davvero ritrovati, avremmo toccato il punto più intimo e vero della nostra identità e della nostra unità. Vivere in Dio e con Dio tramite Gesù è il senso dell’essere al mondo e la radice della missione che ci identifica e ci muove in rapporto al tutto. Coltivare la memoria e la coscienza dell’incontro e della chiamata è il senso e la necessità della vita spirituale.

Cura di sé

Si comincia sempre da me. E precisamente dal livello della mia attenzione e dal grado di avvertenza della mia coscienza, intesa come capacità di attenzione, vigilanza e relazione a ciò che accade nelle forme comuni dell’umano, nonché dalla disponibilità a prendermi cura del mio stare alla presenza del Signore e del mio coltivare la relazione con lui. Tempi di silenzio, ascolto di sé e dialogo interiore, dedicazione all’ascolto della Scrittura e di ogni Parola che nella chiesa e nella vita si coglie come dono di Dio, spazio per la meditazione e il dialogo spirituale, con un accompagnatore, tra pochi o in gruppo, ritmo ordinato di preghiera personale e comunitaria, occasioni di formazione e di confronto: sono solo alcune modalità tra le più sperimentate di coltivazione della spiritualità come esigenza di un impegno innanzitutto personale.

Spiritualità della liturgia e nella liturgia

La liturgia è il luogo per eccellenza nel quale la presenza del Signore si manifesta e opera in seno alla comunità dei credenti, la chiesa in quanto popolo, corpo, tempio. La liturgia eucaristica in particolare, quale fonte e culmine di tutta la vita cristiana (cf. Sacrosanctum concilium, n. 10), è il segno sacramentale in cui la comunione con Dio in Cristo opera più efficacemente nel sostenere la vita secondo lo Spirito nel cuore dei singoli credenti e della comunità ecclesiale. Entrare nello spirito della liturgia è fare spazio allo Spirito che agisce in essa; ma ciò richiede una partecipazione attiva, come invita a fare lo stesso concilio (cf. Sacrosanctum concilium, nn. 14.19.30-31), perché il frutto spirituale abbia tutta la sua efficacia e raggiunga il suo scopo. Per questo si richiede di entrare in profonda sintonia con le parole e i gesti, i silenzi e le forme rituali della liturgia, e con il senso di ciò che viene da tutti compiuto nella celebrazione.

La presenza di Gesù nel povero

Stare alla presenza ha una dimensione mistica perché tende sempre all’unione più perfetta, ma essa non si attua in una fuga intimistica dalla realtà; al contrario richiede lo sforzo di aderire ad essa con profonda consapevolezza e secondo verità di fede. La presenza del Signore nei poveri – affamati, assetati, stranieri, carcerati e così via, secondo le parole di Mt 25,31-46 – è la verità del vangelo e chiede di essere scrutata con scrupolo di fronte ad ogni infelice incontrato, pena la falsificazione di ogni presunta spiritualità, resa falsa dal mancato riconoscimento del Signore là dove egli ha dichiarato in tutta chiarezza di celarsi e allo stesso tempo identificarsi.

Lo sguardo sull’altro

Un’autentica spiritualità credente matura una capacità nuova di guardare la realtà e di scrutarvi la presenza di Dio. Sulla soglia dell’incontro con un proprio simile, insieme al riconoscimento del suo bisogno e della presenza del Signore in lui, ci troviamo in una condizione di timore reverenziale, perché la persona, la coscienza, la storia dell’altro è il luogo di una storia che Dio conduce in un dialogo misterioso e segreto che non ci è dato di scrutare, ma di intuire e circondare di infinito rispetto, nel desiderio esclusivo di non ostacolarlo, bensì di favorirlo.

Spiritualità sociale ed ecologica

Un’autentica spiritualità cristiana, infine, non è mai dissociabile dalla responsabilità morale per ciò che pensiamo, diciamo, decidiamo, facciamo o, al contrario, sfuggiamo. Questo vale sempre, e vale in proporzione alla serietà delle questioni in gioco, nel contesto della vita sociale e della cura dell’ambiente, oggi sottoposto a una azione collettiva devastante. Una spiritualità avulsa dal reale, compreso quello sociale e politico, è di natura sua falsa, si coltiva nell’illusione di una presenza con cui non è mai entrata realmente in contatto, allo stesso modo come non si dà nessun contatto con ciò che rimane vana fantasia.

Conclusione

La sfida che la situazione spirituale del nostro tempo ci lancia riguarda la perdita del centro, l’appannamento della visione, l’incapacità di attingere nuove energie da noi stessi per un reale impegno nella vita, per un risveglio del nostro bisogno di tornare umani e autenticamente credenti, con quell’ardore di fede e di amore che legano al Dio di Gesù, il cui monito torna drammaticamente attuale: «tu non sei né caldo né freddo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, tu non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16).

È la situazione in cui oggi ci troviamo che cela e lascia trapelare in tante forme un vivo desiderio di spiritualità. Abbiamo bisogno di spiritualità per rispondere alla domanda e alla sfida che sale da questa stagione tremenda della vita della chiesa e dell’umanità tutta. Spiritualità vuol dire senso di Dio, comunione con lui, risposta alla sua chiamata e piena di adesione e di slancio, e per ciò stesso recupero del senso di ciò che siamo e di ciò che facciamo, possibilità di capire ciò che sta succedendo e quindi anche di indovinare che strada intraprendere, dove guardare, come aiutarci gli uni gli altri, quale futuro attendere e costruire, nella luce di colui che tutto tiene nelle sue mani e attende solo di accoglierci come i figli ai quali ha donato tutto se stesso in colui – il Cristo Signore – nel quale soltanto c’è salvezza.

Latina, 29 settembre 2022


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Latina
29-09-2022
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