OMELIA
Esequie di don Gianfranco Massarotto
Latina, Madonna di Loreto, 17 dicembre 2020
(2Cor 4,14-5,1; Gv 6,51-59)
+ Mariano Crociata
Don Gianfranco Massarotto è stato uno degli ultimi testimoni di una generazione di preti e di una fase della storia della nostra Diocesi, nella quale si compiva la transizione prima attraverso l’integrazione della parte nord della piana pontina e successivamente il suo perfezionamento con la scelta della sede principale a Latina. Un ruolo non trascurabile si deve comunque riconoscere, in quella transizione, a quel manipolo di preti provenienti soprattutto dal Nord o dalla vita religiosa, che hanno dato un contributo non trascurabile al consolidamento della nuova configurazione diocesana. Don Gianfranco infatti era nato a Trebeseleghe, Padova, il 19 febbraio 1938 e da religioso fu ordinato presbitero il 27 giugno 1965. Subito dopo lo troviamo a S. Maria Assunta in cielo a Cisterna e poi, dopo l’incardinazione, come parroco a partire dal 1970 fino all’ultima sede, proprio qui, dove è rimasto ben dieci anni, dal 2007 al 2017.
A vedere il lungo elenco dei compiti pastorali svolti, si fa presto a rendersi conto del suo contributo all’edificazione della nostra Chiesa diocesana, di cui non è da considerare solo la quantità dei servizi pastorali, bensì la specificità della presenza personale, di cui si faceva presto a cogliere la vivacità, l’ironia e il buon umore, ma anche la forza di carattere e la fermezza di convinzioni, non senza una buona dose di franchezza. Questo ci fa capire come il Signore si serva dell’umanità di un prete, con le sue inconfondibili caratteristiche, per parlare e trasmettersi ai suoi figli. Del resto per primo Gesù stesso ha comunicato la presenza personale di Figlio di Dio attraverso la sua inconfondibile umanità.
E se quello di Gesù rimane un modello inarrivabile di una umanità perfettamente plasmata dallo Spirito, ogni figura umana a servizio del mistero della grazia porta un’impronta originale che tende ad approssimarsi alla perfezione di Gesù. Attraverso tutto e tutti, Lui deve essere conosciuto, incontrato, ricevuto e assimilato. Per questo il sacramento eucaristico – intimamente unito al sacramento dell’ordine – è insieme il dono di Gesù che si trasmette attraverso la mediazione del prete, ed è anche il senso della vita del prete, e anzi di ogni cristiano, il quale accogliendo Gesù fattosi cibo nel pane e nel vino, diventa sempre più capace di diventare egli stesso pane offerto ai fedeli perché – attingendo alla Parola e ai sacramenti – se ne nutrano per la loro vita trasfigurata dal Signore risorto che, per la potenza dello Spirito, assimila a sé coloro che lo hanno assimilato.
Un momento come questo è quanto mai idoneo per percepire in profondità il lascito spirituale di un prete che ha speso la sua vita per la Chiesa. La sua opera principale resta appunto il servizio all’Eucaristia. In ogni Messa, in fondo, si attualizza quello che Giovanni Battista in questo tempo di Avvento non si stanca di testimoniarci: “lui deve crescere e io diminuire”. Il sacerdote, nell’atto di compiere il gesto eucaristico, raggiunge il massimo della sua necessità e della sua presenza; proprio in quel momento, però, egli non fa altro che rendere possibile la presenza sacramentale del Risorto, apparso il quale e donatosi come pane di vita eterna, dono della sua carne per la vita del mondo, in qualche modo scompare; il suo servizio si esaurisce nell’atto in cui si consuma il dono della presenza personale del Cristo, che diventa una cosa sola con ciascuno di noi e tutti noi insieme, così da introdurci nella circolarità della vita divina, Dio in noi e noi in Dio, dove e quando tutte le mediazioni si dissolveranno perché Egli sarà tutto in tutti. E ciò che si compie nell’Eucaristia è come il simbolo riassuntivo di tutta la vita ministeriale di un prete, un servitore della Presenza divina alla cui ombra vive sperimentando la gioia di scomparire per l’espansione della comunione diretta e personale dei credenti con Colui che è la ragione di tutto, compreso lo stesso ministero presbiterale.
Ciò che il sacramento – soprattutto quello eucaristico – compie, anticipa e fa pregustare è la vita eterna, la comunione indefettibile con Dio Trinità: «colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi». Il Nuovo Testamento è ritmato in maniera martellante dal richiamo all’eternità, alla pienezza della vita in Dio che Cristo ha raggiunto con la sua umanità di Risorto. E il prete è a servizio di questo orizzonte ultimo, senza sentirsi in contraddizione quando si tratta di dedicarsi ai poveri e a tutti coloro che chiedono il suo aiuto e il suo sostegno, ma trovando in ogni impegno per la comunità un modo per riempire di grazia (che è anche umanissima bellezza e bontà, giustizia e verità) il corpo terreno di quel regno eterno al quale sentiamo già di appartenere.
A tal punto questo ministero, che tutto assorbe della vita di un prete, è colmo di eternità, che perfino il tempo della mancanza diventa spazio ancora più accogliente per la potenza di Dio, che non cessa di operare la trasfigurazione dell’umanità e della stessa creazione. Il tempo della mancanza è quello della malattia e della fragilità, della fase estrema della vita, quando non si è capaci di dire e di fare più nulla, ma in cui quello stare in croce – e diventa bruciante il dirlo – consuma e offre ancora più puramente il dono sacerdotale della vita di un prete a somiglianza di Cristo: lì si compie il suo celebrare, perché si celebra la Messa della vita sull’altare della sofferenza, a somiglianza della scena della croce che l’ultima cena ha preparato e anticipato. «Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno».
Porterò con me l’immagine di don Gianfranco di questi ultimi anni di malattia, sempre più irrigidito nel suo fisico sempre più asciutto, con la Bibbia piena di tanti fogli e segnalibri tra le mani insieme al breviario, come a dire un desiderio di pregare, di rimanere fedele fino in fondo, di recuperare tutto della propria esistenza nell’atto di prepararsi e di presentarsi al Pastore supremo. In questi mesi di pandemia è diventato difficile andare a visitarlo. È stata una pena vedere il suo bisogno di parlare e di dialogare, frustrato dalla distanza necessaria e da tutte le protezioni possibili (tute, cuffie, mascherine, visiere e tutto quel che è diventato corredo necessario della nostra quotidianità parasanitaria), apparati a cui ormai siamo abituati, ma che impedivano di parlare e di ascoltare. Per fortuna c’era qualcun altro che ascoltava e che ascolta comunque, che lo ha ascoltato e ora lo accoglie con sé, come un servo che si è speso nella vita a favore del suo popolo.