OMELIA
Latina, cattedrale di s. Marco, sabato 26 settembre 2020, XXVI TO A
Ordinazione di cinque diaconi
+ Mariano Crociata
Cari fratelli e sorelle,
carissimi candidati, Vincenzo, Antonio, Giovanni Battista, Fabio e Claudio,
abbiamo annunciato con grande anticipo questa celebrazione di ordinazione e l’abbiamo, pertanto, attesa a lungo nella preparazione e nella preghiera. Siamo grati al Signore per tanto dono, di cui abbiamo presentito la grazia e ora accogliamo la responsabilità. Quanto più grande è il dono, tanto maggiore deve essere la corrispondenza. Vale anche in questo caso la parola del Vangelo: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12,48). E a noi è stato dato, e oggi viene ancora dato, molto: a me vescovo, al presbiterio e alla comunità diaconale, a voi fedeli tutti, a voi ordinandi in maniera particolare, destinatari del sacramento dell’ordine nel grado del diaconato.
Proprio questa considerazione ci mette sulla lunghezza d’onda delle letture bibliche di questa domenica. La questione che esse pongono è ultimamente quella della libertà nel nostro rapporto con noi stessi, con gli altri, con Dio, e sarebbe meglio parlare più specificamente di dramma della libertà. Dramma non nel senso teatrale e nemmeno nel significato di vicenda tragica, ma piuttosto nel senso originario della parola dramma, cioè azione. Evoco questo significato perché sia la prima lettura che il Vangelo vedono svilupparsi una azione libera: in ambedue i casi una azione di capovolgimento, dal male in bene e dal bene in male, per il profeta Ezechiele, e dei fatti rispetto alle parole in Matteo. Nell’uno e nell’altro brano avviene un cambiamento che di per sé non ci si aspetterebbe. Da uno che si è sempre comportato con correttezza non ci aspetta che improvvisamente diventi malvagio, e viceversa. Eppure, accade, dice il profeta. Ecco il dramma, e cioè l’azione personale mediante la quale l’uomo attua la propria libertà decidendo del proprio destino. La cosa importante da notare è che, quando si tratta della persona, le cose non sono fissate una volta per tutte; nemmeno la libertà è una facoltà posseduta in maniera statica, inerte, che uno possa usare o no. L’uomo è libertà perché ad ogni momento decide di sé, attua se stesso, sia che faccia qualcosa sia che non faccia nulla, sia che parli sia che taccia. Ma proprio perché attua se stesso nella libertà, ciò che l’uomo decide non è prefissato, bensì svela passo passo che tipo di uomo è e vuole essere, a volte anche nel senso di un cambiamento radicale, verso il bene o anche verso il male, per la conversione o per la corruzione. E proprio perché libero, le conseguenze dell’agire umano ricadono comunque su chi ha preso una decisione, un orientamento, piuttosto che altri.
Il Vangelo ci aiuta a vedere più in profondità il dramma della libertà, guardato non più dall’esterno, dai soli comportamenti esteriori, ma entrando piuttosto nel cuore dell’uomo e nel dramma che si svolge dentro l’interiorità umana. Qui infatti scopriamo la lotta incessante che si conduce tra bene e male. Lo dice anche san Paolo: «Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,15.19). In questo volere e non volere che lacera il cuore i due figli della parabola finiscono con il fare il contrario di ciò che dicono: l’uno dice sì, ma solo a parole; l’altro dice no a parole, ma i fatti poi diranno un’altra cosa. E in questo modo ci viene però suggerita la soluzione del dramma, che consiste nel primato proprio dell’agire. In ciò ritroviamo la peculiarità di Matteo, di cui ricordiamo il detto: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). I fatti contano più delle parole. A ridare equilibrio alla stessa interiorità della persona, a risolvere l’incertezza e il lasciarsi tirare da tendenze contrapposte, è la decisione dell’azione, la pratica imposta dalla volontà in conformità a ciò che viene riconosciuto come bene, perfino quando si è detto il contrario. È l’esempio di Gesù, il quale si è fatto obbediente fino alla morte, come canta l’inno della lettera ai Filippesi.
Proviamo allora a trarre qualche conclusione. La prima è che siamo affidati alla nostra libertà. Essa è una libertà reale, anche se la nostra è una libertà ferita. Facciamo fatica, ma non possiamo scaricare su altri le nostre responsabilità e le nostre colpe. La fede però ci dà la certezza che la nostra libertà non è abbandonata a se stessa, ma è sostenuta da Dio e sorretta dalla sua grazia. Per questo Dio ha dato a Gesù un nome che è al di sopra di ogni altro: «perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11). Una libertà riscattata, e perciò vera e piena, è quella che riconosce in Gesù il Signore e si sottomette a lui, lo confessa Signore e lo segue, a imitazione di lui stesso che si è fatto obbediente al Padre fino alla croce.
Il fatto che voi ora venite ordinati, cari candidati, il fatto che io sia vescovo e che alcuni dei presenti siate preti o che tutti noi siamo religiosamente praticanti, non garantisce nulla automaticamente, perché equivale a dire “Signore, Signore!” e, come tale, non ci assicura che la nostra vita sarà sempre coerente con ciò che professiamo; il motivo è che siamo perennemente dentro la scommessa della libertà, che richiede da te e da me la scelta e la decisione ad ogni passo. L’“una volta per sempre” è nelle intenzioni e nella volontà che in quel momento si esprime: nel momento dell’ordinazione, della celebrazione del matrimonio, della professione religiosa. Ma l’intenzione e la volontà, per essere effettivi sino alla fine, sono richieste di essere riassunte e riespresse ad ogni momento.
L’unica garanzia è il nome di Gesù e la sua confessione, fatta inginocchiandosi, cioè obbedendo, e professando a viva voce. Ricominciamo tutti, e voi per primi, cari nuovi diaconi, a inginocchiarci e a proclamare sempre, passo passo, sino alla fine, a parole e nei fatti: Gesù è il Signore!