OMELIA
Solennità di Maria Madre di Dio
Cattedrale di S. Marco, 1 gennaio 2020
Presentazione del messaggio per la 53a Giornata mondiale della pace
✠ Mariano Crociata
La nostra assemblea liturgica ha al centro il mistero del Natale, giunto al compimento della sua ottava, e la solennità della maternità di Maria che quel mistero ha reso possibile. La nostra attenzione è assorbita, come ad ogni primo giorno dell’anno in questa celebrazione, dalla ricorrenza della Giornata mondiale della pace, che ci vede riflettere e pregare a partire dal messaggio del papa.
La pace si ripresenta a noi come un bene che sta al cuore della nostra vita e della storia, e anzi dovrebbe starci a cuore molto più di quanto non accada. Senza la pace, nessun bene è possibile, perché nessun bene può essere goduto; con la pace, anche la mancanza di un bene può essere sopportata nell’attesa di un suo futuro raggiungimento. La pace è il primo di tutti i beni e la condizione del loro possesso e godimento. Senza pace non c’è nemmeno vita, perché è la vita stessa ad essere minacciata. Ma come tutte le cose preziose, anche la pace rischia di essere apprezzata quando manca, e quasi dimenticata quando invece c’è; e la dimenticanza rende estranei e nemici. Il nostro Paese, dopo il più lungo periodo di pace seguito a uno dei conflitti mondiali in assoluto più sanguinosi, è minacciato, più che da pericoli esterni, dall’interno, a causa della superficialità e della dimenticanza di molti dei suoi cittadini.
Per questo motivo giunge quanto mai opportuno il messaggio del papa di quest’anno, il cui titolo riassume la varietà dei temi che tocca: «La pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica». Esso fa capire che tante sono le condizioni e gli impegni che il perseguimento e la conservazione della pace richiedono. In questa sede vorrei sottolineare solo un filone delle riflessioni che il messaggio suggerisce e che riassumerei nella frase: la pace ha bisogno di memoria e di speranza. Ne vorrei parlare tenendo presente l’orizzonte globale, senza perdere di vista il nostro contesto specifico.
Si comprende meglio il contenuto del messaggio se si tiene presente che esso riflette – come richiamato espressamente nel testo – la visita recentemente compiuta dal papa in Giappone, in particolare alle città di Hiroshima e Nagasaki, tristemente famose per essere diventate obiettivi militari per il lancio delle prime bombe atomiche, le cui profonde cicatrici sono visibili e ancora oggi causa di sofferenze indicibili. L’impressione indelebile lasciata da quei tragici eventi tiene viva una memoria che tuttavia perfino in quei luoghi può venire, se non del tutto rimossa, certo variamente indebolita. Tanto più la memoria ha bisogno di essere tenuta viva in un Paese come il nostro, nel quale le generazioni che si sono succedute, della guerra hanno solo sentito raccontare e ne sentono parlare per i tanti conflitti di oggi, ma come qualcosa che non ci tocca e non ci riguarda. Un segnale inquietante di tale pericoloso oblio viene, non solo in Italia, dai ripetuti rigurgiti di antisemitismo.
La memoria di cui la pace ha bisogno non è solo il ricordo di fatti passati; non è cioè la memoria nozionale, quella che fa conoscere le informazioni sul passato. Simile genere di memoria rimane alla superficie, perché non tocca le dimensioni profonde della persona; la memoria di cui la pace ha bisogno è quella che fa vibrare le corde del cuore e della sensibilità della persona. Per questo non è del tutto vero il detto latino: historia magistra vitae, la storia maestra di vita. In realtà la storia non insegna niente se non si vuole imparare. Ci vogliono allievi attenti e sensibili perché la storia diventi maestra.
Qual è allora la memoria di cui ha bisogno la pace? Non la memoria cognitiva, ma la memoria esperienziale, quella che non si ferma a richiamare il passato, ma ne riconosce gli effetti nelle condizioni del presente e se ne lascia toccare. La memoria viva sa guardare in profondità il presente e rende sensibili alle sue sofferenze e alle persone che le portano, perché le sofferenze sono conseguenza e causa delle guerre del passato e del presente. Non è forse di questo genere la memoria che ci riportano i nostri militari impegnati in missioni di pace in paesi belligeranti o devastati dal terrorismo? Non è tale la memoria che ci trasferiscono i disgraziati che fuggono dai loro paesi spesso sotto le bombe o inseguiti da una violenza inaudita? Diventare sensibili alle sofferenze altrui significa avvertire l’esigenza di alleviarle per consentire condizioni di pace per tutti.
Di fronte alle sofferenze, la pace scopre di avere bisogno non solo di memoria ma anche di speranza. Di quale speranza parliamo? Per noi non c’è speranza fuori del bambino Gesù che celebriamo appena nato, designato principe di pace. La speranza cristiana è l’attesa di qualcosa che non c’è ancora, ma che si ha la certezza di ottenere, perché promesso dal Signore sempre fedele alla sua parola. Come sentite, la speranza cristiana è cosa ben diversa dall’attesa vaga e incerta di qualcosa che nessuno è in grado di dire se accadrà o meno. Una tale speranza è davvero illusoria. Il credente fonda la sua attesa nella certezza che è Dio a garantire. Egli si fida della parola di Dio, e anche se ancora non vede nulla di concreto e tangibile o appena dei segni, si fida incondizionatamente e attende con certezza che la promessa si realizzi.
Il credente vede con speranza ciò che sarà, e perciò agisce come uno che ha già ricevuto ciò che attende, e anzi agisce in modo da favorirne il compimento. Lo sperare cristiano non è mai una inerte attesa, ma un avvicinarsi operoso e attivo a ciò che viene sperato, un cercarlo e un lavorare per conseguirlo. Il messaggio cita, in proposito, una frase di san Giovanni della Croce che suona così: «Si ottiene tanto quanto si spera». Siamo gente di così povera speranza che desideriamo e attendiamo risultati di poco conto, e a volte anche ci affanniamo per mete piccine e perfino meschine. Da credenti dovremmo imparare a sperare in grande, a prefiggerci mete alte. Non raggiungiamo grandi risultati perché non ci proponiamo grandi obiettivi.
Questo vale per la vita personale, ma anche per quella collettiva. Siamo pronti ad associarci per la difesa di piccoli interessi, ma facciamo fatica a ritrovarci attorno a grandi obiettivi collettivi, con il risultato che non sappiamo dove stiamo andando, quale sia il futuro che ci attende, quale società vogliamo costruire. Il mondo comincia a bruciare da qualche parte e noi rimaniamo chiusi trincerati dietro pareti che non ci proteggono più da nulla, visto che ormai il ‘grande fratello’ è arrivato quasi a scrutare se non i nostri pensieri, certo le nostre abitudini e le nostre aspirazioni consumistiche. Si insedia così in noi un malessere destinato a esplodere. Pace non è un semplice potere stare tranquilli per i fatti propri, ma saper vivere insieme in maniera costruttiva, collaborativa, cooperante, per edificare una convivenza promozionale della nostra comune umanità, grazie alla quale impariamo a vivere meglio, con rispetto e sostegno gli uni degli altri, in dialogo, capaci di affrontare i conflitti con volontà di riconciliazione, disposti a cambiare se necessario, impegnati a farci carico di un ambiente che diventa sempre più ostile e ci si rivolta contro.
Non dovrebbe essere difficile cogliere le conseguenze e gli impegni che scaturiscono per noi e per il nostro territorio. Sento che come Chiesa siamo impegnati in prima persona; e precisamente a costruire comunità vive e reali, nelle quali piccoli e grandi si trovino a loro agio, in clima di famiglia, della famiglia di Gesù. Sperare questo significa crederlo possibile e voluto al di là dei limiti che le nostre persone presentano come tutti i comuni mortali.
Anche la società civile deve sentirsi interpellata in questa speranza più grande che deve toccare e raggiungere tutti. Rinnovo qui l’appello a un patto educativo che veda tutte le aggregazioni e i soggetti sociali sentirsi interpellati e adoperarsi perché le nuove generazioni crescano al meglio delle loro possibilità umane, non solo fisiche e materiali, ma inseparabilmente anche intellettuali, morali e spirituali. Infine le istituzioni hanno la grande responsabilità di favorire e rendere possibile la crescita della società civile nella sua capacità di libera iniziativa aggregativa come motore di nuova socialità e di crescita nella solidarietà.
Il messaggio ci dice che «non si ottiene la pace se non la si spera» e che «si tratta prima di tutto di credere nella possibilità della pace». Noi vogliamo essere tali persone e tali credenti, che credono e sperano nella pace, nel grande mondo delle nazioni come nel piccolo mondo delle nostre comunità, delle nostre città e dei nostri territori.