OMELIA
Sabato, 26 ottobre 2019 XXX Domenica TO C
Ordinazione presbiterale di Diego Fieni
+ Mariano Crociata
La scelta di questo giorno per l’ordinazione di Diego Fieni non è casuale, collocandosi nel mese missionario straordinario voluto dal papa quest’anno. In tale scelta si esprime, infatti, l’intenzione di un giovane di questa città e di questa diocesi, che è stato chiamato dal Signore a seguirlo in una comunità caratterizzata dal carisma missionario, la Comunità missionaria di Villaregia. Potrebbe sembrare così esaurirsi la spiegazione della scelta, con legittimo compiacimento generale. In realtà il carattere missionario non impegnerà Diego solo in quanto chiamato e quindi inserito in una Comunità specifica, ma lo riguarderà da oggi in avanti innanzitutto in quanto sacerdote, in forza dell’ordinazione presbiterale. Non tutti i preti, come toccherà a Diego, sono mandati in altri paesi e continenti; ma tutti i preti portano dentro un’anima missionaria conferita dall’ordinazione.
È questo un punto sul quale non sempre si riflette e di cui a volte non si ha nemmeno consapevolezza. Il segno esteriore di questa dimensione missionaria è l’incarico pastorale e soprattutto il trasferimento da un incarico ad un altro a cui ogni presbitero è sottoposto. Nessun prete (come del resto nessun vescovo) possiede come proprietà di esclusiva competenza e dominio l’ufficio che gli è stato affidato: ognuno di noi è un inviato, un inviato a tempo, un inviato a tempo per un servizio che edifica una comunità (e una umanità) che appartiene non a lui ma a Dio. Un prete non diventa padrone di nessuno, ma rimane sempre servitore di Dio, della sua Parola e dei suoi sacramenti, servitore della sua Chiesa là dove viene di volta in volta destinato.
Il carattere missionario mette l’accento su colui che invia prima che su coloro ai quali si viene inviati. In primo piano sta colui che invia. Gesù stesso dice: «chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37). Perciò il tratto decisivo del ministero ordinato è la relazione con colui che ci ha chiamati e inviati. È usuale nelle celebrazioni di ordinazione sottolineare la grazia che viene conferita all’ordinato con le potestà – usiamo pure questa parola – che da essa discendono, prima fra tutte quella di celebrare l’Eucaristia e di rimettere i peccati, poi quella di annunciare la Parola e di guidare la comunità ecclesiale in comunione con il vescovo. Tale potestà tuttavia non viene conferita come un potere acquisito in totale autonomia o, peggio, arbitrio, ma sempre in continua e viva relazione con colui che nell’Eucaristia si dona, che perdona i peccati, che parla al cuore del credente e lo unisce nella comunione dei fratelli nella fede. L’ordinazione avviene una volta sola e conforma per sempre a immagine di Gesù pastore, ma il ministero nel suo esercizio è come un corso d’acqua che fluisce sempre di nuovo dall’unica sorgente in grado di generare alla fede e alla vita di Chiesa. Il presbitero è il segno e lo strumento di questa grazia sorgiva che fa la Chiesa; attinge perciò incessantemente a quella fonte e vive egli stesso per primo del dono che ora trasmette a quelli che gli sono affidati e a quanti incontra lungo il cammino.
Proprio perché intimamente unito a colui che lo ha chiamato e mandato, il presbitero fa suo l’amore e la premura che egli – il Signore – nutre per coloro ai quali come ministro ordinato è mandato, ne cerca il bene come il suo proprio bene, sa di avere avuto in dono la vita e il sacramento dell’ordine per spendersi per loro. Il prete è un uomo che ha consegnato la sua vita a Cristo, ma non per imporsi un’arida rinuncia, bensì per farne un dono, per amore di Dio e dei fratelli. Un prete non può vivere il suo ministero come un mestiere speciale o come una occupazione magari più nobile di altre, ma come l’investimento di tutto se stesso – dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, delle sue energie, delle sue capacità e risorse – nella premura e nella cura della fede dei fratelli. Un prete può essere segnato dalla fatica, dalla stanchezza, perfino dalla delusione, ma non può essere vinto da esse; senza ardore, senza entusiasmo, senza gioia di spendersi per gli altri, senza amore generoso e disinteressato, senza fiducia incondizionata nel «padrone della messe», non si può essere preti, oggi meno che mai. E non è questione di atteggiamenti esteriori da esibire o, peggio, da ostentare; è questione di fuoco interiore, di una fiamma sempre viva che deve illuminare e riscaldare la persona tutta intera dall’interno. E quando c’è il fuoco nel cuore, gli altri lo percepiscono, ne sono anch’essi illuminati e riscaldati. E in tal modo l’essenza della missione è già compiuta.
La persona e la vita di un prete si muovono dentro una polarità inseparabile tra Colui che manda e coloro ai quali si è mandati. Ma la risorsa originaria, il polo mobilitante, è il rapporto con Colui che manda, un rapporto che si alimenta alle sorgenti della preghiera, quella preghiera di cui parlano le letture di questa domenica. Da esse ricaviamo alcune indicazioni, che vogliamo raccogliere per la vita di fede di tutti noi e per il tuo ministero presbiterale, caro Diego.
Innanzitutto la preghiera non mette al centro se stessi, ma Dio. Non è un modo di continuare a pensare ai propri interessi e ai propri affari, ma per spostare l’attenzione su Dio, per decentrarsi verso di Lui.
In secondo luogo la preghiera sgorga sempre da un cuore umile. E umile vuol dire capace di misurare se stesso di fronte a Dio, e quindi consapevole di essere bisognoso e piccolo di fronte a Dio, disponibile e aperto, pronto a invocare e a chiedere, perché di fronte a lui siamo «servi inutili».
In terzo luogo la preghiera ha sempre un carattere fraterno. Due si trovano al tempio, ma sono lontani e divisi, soprattutto per l’atteggiamento del fariseo, che perfino nella preghiera giudica e disprezza l’altro. Anche noi troppe volte stiamo insieme in chiesa, ma chissà con quali pensieri e sentimenti gli uni verso gli altri. Un prete, caro Diego, è uno che pratica e insegna la fraternità a cominciare dalla preghiera, che consiste quantomeno nell’accogliere nella propria preghiera tutti gli altri insieme alla loro preghiera, spogliandosi da ogni giudizio e da ogni senso di superiorità.
Questo lo deve fare per primo il pastore, il quale ha ricevuto il compito della preghiera come primo e principale modo di esercitare il suo ministero e di guidare il suo popolo. Quando un pastore ha pregato per la propria comunità, allora potrà cominciare a parlare e ad agire. In tale preghiera del pastore, come ci ricorda la prima lettura, i poveri, i piccoli, i deboli, gli sconfitti della vita, devono avere il primo posto e l’accoglienza più sentita. Nella preghiera del prete – e non soltanto di lui, bensì della Chiesa intera – ci devono stare tutti, ma per primi devono starci i più infelici, perché dinanzi al Signore «non c’è preferenza di persone» ed egli «ascolta la preghiera dell’oppresso».
Caro Diego, questo il mio e il nostro augurio. Tu sei oggi in modo speciale nella nostra preghiera, e vi rimarrai sempre. La tua vocazione, nata nel cuore della nostra Chiesa, in questa comunità parrocchiale, sarà sempre un segno per noi, posto per richiamare e tenere viva la spinta missionaria del nostro ministero e del nostro essere Chiesa.