OMELIA
Domenica, 15 ottobre 2017, XXVIII TO A
Parrocchia S. Rita, Latina, ingresso del nuovo parroco
+ Mariano Crociata
Questa domenica il Signore ci dice parole importanti per la nostra fede e per il nostro essere Chiesa. Parole che ci raggiungono in una circostanza speciale per la comunità parrocchiale di S. Rita: l’ingresso del nuovo parroco, don Enrico Scaccia. Viene spontaneo fare una riflessione sui passaggi che questa parrocchia ha subito nel volgere di pochi anni, dai religiosi che per lungo tempo ne hanno avuto la cura pastorale a don Enzo Avelli, a don Gianni Checchinato, a don Giancarlo Masci, per quest’ultima fase di transizione, insieme a quanti con lui hanno collaborato.
Una figura stabile di riferimento come il parroco è essenziale per assicurare a una comunità un cammino ordinato; si capisce pertanto che in assenza o nella brevità di una presenza si produca un effetto di, anche solo piccolo, disorientamento. Tuttavia, riconoscendo questo effetto sfavorevole, voglio aggiungere che, nella loro eccezionalità, anche le fasi di transizione e di passaggio hanno una loro provvidenzialità, perché misurano il grado di maturità della comunità e la qualità della fede e del senso ecclesiale dei fedeli che la compongono, e forniscono uno stimolo nuovo alla ricerca e alla crescita spirituale verso una partecipazione e una responsabilità maggiori da parte di tutti. C’è motivo di riflessione e di verifica per tutti, dunque, presbiteri e fedeli. Non basta, infatti, essere ammessi alla festa – come dice la parabola evangelica di oggi – per poterci rimanere, bisogna portare sempre la veste della festa, e questo vale per i pastori come per i membri della comunità.
Il Vangelo di oggi – insieme alla pagina di Isaia – ci offre, perciò, l’opportunità di rileggere in maniera originale il ministero pastorale e il cammino di una comunità. Lo fa proponendoci l’immagine della festa di nozze e del pranzo o banchetto. Giustamente il nostro pensiero va spontaneamente all’Eucaristia, come anticipazione e inizio della festa definitiva nella gloria del regno di Dio. Io vorrei suggerire di considerare l’immagine, prima ancora, nella sua portata umana ed esperienziale. Si tratta infatti di una festa di nozze, quindi dell’unione di due giovani, della condivisione della gioia di una festa dell’amore, del mangiare insieme per rendere piena la festa. Proprio quest’ultimo aspetto vorrei sottolineare per primo, perché si riferisce a una dimensione fondamentale, quella del cibo, del nutrimento, della fame, e quindi della vita e della morte. È un bisogno elementare quello di nutrirsi, in quanto condizione per continuare a vivere. Dandoci il nutrimento, come del resto leggiamo nei racconti della creazione, Dio vuole mantenerci in vita, e vuole mantenerci in vita perché rimane fedele a se stesso, lui che ci ha dato la vita. Noi siamo qui, ci siamo, perché siamo stati invitati, chiamati alla vita da Dio. È l’unica e l’ultima ragione per cui esistiamo.
Con la parabola Gesù ci vuole far prendere coscienza proprio di questo: di essere degli invitati alla festa della vita, questa vita terrena aperta alla vita eterna. Dio ci chiama unitamente e inseparabilmente all’una e all’altra vita, all’unica vita da ora per l’eternità. Non dovremmo mai perdere il senso della grandezza di questo invito, del dono della vita.
Come è nella cultura di quasi tutti i popoli, in modo particolare in quella ebraica poi passata in quella cristiana, mangiare non è un atto meramente materiale, di soddisfacimento di un bisogno; è molto di più, è un gesto pieno di significato che prende tutto il suo senso quando il pasto viene condiviso. C’è gusto nel mangiare quando si mangia insieme, quando si sta in armonia, quando si condivide con gioia e gratitudine, insieme al cibo, il dono della vita. Così scopriamo che siamo invitati alla festa della vita per condividerla con altri. Non possiamo fare festa da soli, non siamo davvero in festa se qualcuno è escluso; bisogna condividere perché davvero festa sia. Così l’invito del Signore è a fare festa insieme, nella fraternità, nella comunione, nella gioia dell’unità e della pace. Ne facciamo esperienza nella vita quotidiana: quando siamo in contrasto con qualche persona a noi particolarmente cara, anche il nostro umore e lo stesso appetito ne risentono; e possiamo avere anche le pietanze più prelibate dinanzi a noi sulla tavola, se il nostro cuore è inquieto e gli affetti e le amicizie più care attraversati dalla divisione e dall’odio, allora non abbiamo più voglia né capacità di gustarle. Pane e amicizia ci vogliono tutti e due, vanno insieme: il pane è buono e gustato davvero quando c’è anche il pane dell’amicizia, e l’amicizia è autentica quando sa condividere anche il pane.
In realtà questa capacità di armonia e di unità, con noi stessi e con gli altri, richiede a sua volta che entriamo e viviamo nella comunione con colui che è il fondamento della stessa vita e dell’amore, con colui che ci ha invitato al banchetto della vita e dell’amicizia. È questo il senso dell’immagine delle nozze. Si sposa il figlio del re, ma non si ha notizia della sposa. Non c’è perché la sposa è la Chiesa, è l’umanità, siamo noi, chiamati a entrare nella comunione della vita divina. Per questo è venuto Gesù. A rinnovare l’invito e, soprattutto, a realizzarlo e a renderlo possibile, con la sua presenza, la sua parola, i sacramenti. Senza di lui abbiamo solo dimostrato di non sapere accogliere l’invito, anzi abbiamo sperimentato di essere capaci soltanto di rifiutarlo. Ora che lo abbiamo conosciuto, e quindi abbiamo accolto l’invito, ci resta da dimostrare di essere degni di stare alla festa, di sedere al banchetto di nozze con Dio. A questo scopo ci vuole l’abito adeguato; e l’abito non è altro che un cuore che sente la gratitudine e la gioia dell’invito ricevuto, e un modo di agire che corrisponde alle attese e alle esigenze del re, di colui che non vuole altro, donandoci tutto, se non che raggiungiamo la realtà della vita alla sua presenza e in comunione con lui.
Attenti a non farci ingannare dalla forma espressiva di tante pagine bibliche: là dove si parla di punizione e di condanna, come nel finale della parabola, non si tratta di altro che delle conseguenze autolesionistiche (e autodistruttive) da temere per noi stessi. Il Signore ci fa capire che non è lui che ci vuole fare del male, siamo noi stessi che ce lo facciamo e lui è lì, pronto ad aprirci gli occhi, preoccupato che non arriviamo alle conseguenze estreme della nostra ottusità e insipienza. Non è lui che ha bisogno della nostra veste nuziale, non è per sé che ce lo chiede; siamo noi che ne abbiamo bisogno per rimanere degni della vita che ci è stata donata, all’altezza di condurla e portarla a compimento.
La Chiesa esiste per rinnovare in tutti noi la coscienza di essere degli invitati, per rinnovare ad altri l’invito che ha fatto Gesù, e distribuire i doni che Gesù ci ha lasciato per riuscire davvero a partecipare con dignità e verità alla festa della vita e della grazia, dell’amore di Dio per noi e delle nostre nozze d’amore con lui. Saper stare insieme in concordia e comunione, aiutandoci gli uni gli altri, nella gioia della fede condivisa, desiderosi di partecipare ad altri questa incomparabile esperienza di vita, perché Dio vuole che tutti siano invitati e entrino nella sala del banchetto: questo è il senso della Chiesa e, in essa, della presenza del ministero ordinato.
Caro don Enrico, sarà questo il tuo compito specifico: alimentare la coscienza di questo invito divino, intima verità della nostra umana esistenza, estenderlo e rinnovarlo senza posa, consentire al maggior numero di persone di lasciarsi mettere nelle condizioni di accogliere l’invito e così partecipare alla festa. E se qualcuno rifiuta, insisti e poi passa ad altri. È così grande il dono che abbiamo ricevuto, che il movimento della sua espansione non potrà mai terminare e, soprattutto, la gioia sarà inarrestabile, perché c’è una promessa di Dio alla quale ci consegniamo senza riserve: «eliminerà la morte per sempre». La gioia si perde quando ci si chiude, quando si pensa solo a sé, quando ci si restringe tra pochi intimi escludendo tutti gli altri. Per questo il profeta insiste: «tutti i popoli», «tutte le nazioni», «ogni volto», «tutta la terra».
Dobbiamo essere profeti di speranza, perché la promessa di Dio non viene mai meno e nessun motivo di preoccupazione potrà prevaricare sulla sua presenza e sulla sua parola. In questo clima deve ricominciare a scorrere il cammino di questa comunità, collocata in mezzo al tessuto urbano e dunque a stretto contatto con altre, proprio per richiamare la vocazione strutturale a creare legami e comunione non solo all’interno della comunità parrocchiale ma anche con le altre comunità, perché risplenda la comunione come stile di vita e regola di relazione nella Chiesa a tutti i livelli.
Questo auguro e per questo prego, a favore tuo, di nuovo parroco, e dell’intera comunità parrocchiale.