OMELIA
Veglia pasquale
Cattedrale di S. Marco, sabato 15 aprile 2017
+ Mariano Crociata
Ci siamo lasciati venerdì che il masso era stato collocato all’ingresso della grotta scavata nella roccia dove era stato deposto Gesù, mettendo la parola fine alla sua entusiasmante e contrastata vicenda. Il masso che chiudeva la tomba era come il sigillo a un punto da cui non si poteva tornare più indietro. È vero che alle spalle stava una storia di profezie sul potere di Dio di vincere la morte e che anche Gesù aveva rinviato a una sua misteriosa fine non solo di morte, ma ora non c’era più niente che potesse distogliere il pensiero dall’esito così misero toccato a lui e al suo movimento.
La scoperta delle donne e la loro testimonianza ai discepoli ha qualcosa di inaudito, che sulle prime sconcerta e disorienta, tanto che solo a fatica si riesce a raccapezzarsi e dare lentamente un senso alle parole scambiate e perfino alle constatazioni fatte di persona. Saranno le apparizioni del Risorto a dare a poco a poco una svolta all’esperienza e alla coscienza dei discepoli. E la certezza che balza agli occhi del cuore è che Dio è intervenuto, ha agito con braccio potente per strappare Gesù dalle grinfie della morte ed elevarlo alla sua stessa vita, alla vita dello Spirito e alla gloria del Padre. La risurrezione si delinea sempre di più come il gesto supremo, il dono d’amore, la manifestazione più eloquente della volontà di salvezza che aveva sempre guidato Dio in relazione a Gesù e attraverso Gesù nei confronti di coloro che hanno creduto in lui. Adesso questa volontà ha agito in maniera definitiva e si apre al futuro di tutti quelli che crederanno in Gesù.
Certo la risurrezione è un gesto di assoluta libertà di Dio, una iniziativa imperscrutabile rivelatrice della volontà divina di amore incondizionato verso Gesù e i suoi. Ma tale gesto è stato la conferma di una benevolenza e di una compiacenza che il Padre ha sempre avuto nei confronti di Gesù, il quale ha condotto la sua esistenza in una dedizione incondizionata nei confronti di lui e dei fratelli, in una fiducia e in un abbandono senza riserve, in una obbedienza senza ombre, che hanno fatto della sua vita un unico atto di consegna di sé al Padre. Giunto a quello che vive come vertice della sua vita e missione, sulla croce, Gesù si rimette interamente al Padre, non più soltanto nel suo parlare e agire, ma ora soprattutto nel suo essere ridotto all’impotenza estrema, mostrando di portare al vertice più alto la sua attività nel momento supremo di completa passività, con un gesto perfetto di autoconsegna che riconosce Dio come unico signore a cui affidarsi e lasciando che sia lui a compiere l’opera alla quale lo aveva chiamato e che era rimasta sempre innanzitutto in suo potere. Come atto assolutamente libero di Dio sull’uomo Gesù morto, la risurrezione è pur sempre resa possibile da tale autoconsegna di Gesù, dall’affidamento incondizionato di sé e della propria opera, riconosciuta e portata avanti come innanzitutto opera di Dio.
L’annuncio della risurrezione raggiunge anche noi in una situazione analoga, non soltanto quando saremo lambiti dal supremo passaggio da questa vita verso l’oltre, ma già in tante situazioni e passaggi della nostra esistenza, nella quale ci ritroviamo come sepolti dai nostri fallimenti, dai nostri errori, dai nostri peccati o, comunque, dalla nostra finitezza e fragilità, resi incapaci di articolare gesto o parola per ricominciare e risollevarci. Gesù risorto, ormai pervaso della potenza divina dello Spirito, viene a tirarci fuori dai nostri sepolcri, da tutto ciò che ci vede paralizzati, impotenti, scoraggiati e rassegnati al peggio, forse disperati, condannati a rimanere preda, poco o molto, del male. Credere nella risurrezione di Gesù significa credere anche che non ci è consentito di rassegnarci al peggio, all’inerzia, all’impotenza. Non un atto di volontarismo o di disperazione ci fa rialzare, ma la certezza e la forza che ci viene dall’incontro con Gesù risorto e vivente e dalla sua presenza nella nostra vita attraverso la parola e i sacramenti della fede.
La fede ci salva perché è canale della grazia che il Risorto ci trasmette. Anche noi, dunque, a misura dal nostro abbandono in Dio, della nostra autoconsegna a lui, saremo toccati dalla potenza della grazia del Risorto. Senza dimenticare, che fede e autoconsegna abbracciano anche coscienza vera delle nostre responsabilità e dei nostri peccati. A differenza di Gesù, che porta a compimento l’affidamento e la consegna con cui ha vissuto la sua intera vicenda umana e gli anni della sua missione a Israele, per noi non si tratta di dare compimento ma di portare a compiuta coscienza e riconoscimento la verità della nostra infedeltà, del nostro non aver voluto fidarci e affidarci, ma di aver cercato di salvarci da noi stessi, di salvare la nostra vita rischiando definitivamente di perderla.
A queste condizioni la risurrezione di Gesù diventa sempre di più fermento di vita nuova nel corso del nostro cammino, lungo il quale non ci potrà essere spazio per autocommiserazione, abbattimento, depressione, rassegnazione alla sconfitta e al fallimento. Non, dunque, un fatuo ottimismo, ma una certezza di fede in Gesù risorto diventa forza di vita nuova lungo un cammino nel quale rialzarci, se necessario, ad ogni passo.