Messaggio per la XLIX Giornata mondiale della pace 2016
Presentazione alle Autorità istituzionali e agli Amministratori della città e della provincia di Latina
Latina, Cattedrale di S. Marco, 1 gennaio 2016
+ Mariano Crociata
Il messaggio per la Giornata della pace di questo nuovo anno porta il titolo “Vinci l’indifferenza e conquista la pace”. Papa Francesco ha enunciato il tema dell’indifferenza fin dai primi tempi del suo pontificato, precisamente con la sua visita a Lampedusa, quando usò per la prima volta l’espressione “globalizzazione della indifferenza”; ora ne propone uno sviluppo richiamando la stretta correlazione che sussiste tra superamento dell’indifferenza e raggiungimento della pace. Nell’ottava di Natale, che celebriamo venerando Maria quale Madre di Dio, siamo consapevoli che Cristo è la nostra pace. In che modo egli diventa tale, e cioè fonte, ragione e sostanza della nostra pace? Il messaggio del Papa ci indica un percorso di risposta. Lo seguiremo innanzitutto riflettendo su che cosa sia l’indifferenza e individuando, poi, in che modo essa possa essere vinta.
Indifferenza: diffusione e patologie
L’indifferenza non è un fenomeno di oggi, ma nel nostro tempo essa ha raggiunto una consistenza e una estensione davvero ragguardevoli. Non a caso il Papa ha usato l’espressione “globalizzazione dell’indifferenza”, poiché essa ormai pervade tutte le relazioni sotto tutte le latitudini. Non bisogna trascurare che essa intacca non soltanto gli aspetti economici e sociali delle relazioni, ma anche quelli psicologici, morali, spirituali e religiosi, fino a costituire, in alcuni casi, una sorta di malattia particolarmente grave e pericolosa per la persona e per la società. Come dice la parola, essa consiste nella ignoranza, nella trascuratezza e perfino nella negazione della differenza e delle differenze. Detta così, può apparire un problema di poco conto; in realtà essa rappresenta un vero e proprio dramma. Ce ne rendiamo conto se prendiamo in considerazione le sue forme estreme, di tipo patologico. Penso, in modo particolare, a due tipi di patologia come l’autismo e il narcisismo; fenomeni di ben diversa gravità, ma entrambi caratterizzati dalla negazione della realtà esterna, della realtà degli altri, che porta a condurre la vita chiusi dentro un involucro che impedisce di vedere nulla al di fuori di se stessi e del proprio piccolo mondo; la realtà e gli altri, in questi casi, non esistono nella loro alterità; appunto, non fa alcuna differenza che ci sia una cosa o l’altra, un essere o un altro; esiste solo il proprio orizzonte chiuso e impermeabile ad ogni sollecitazione che induca a uscire da se stessi per porsi in relazione. In questi casi, proprio perché patologici (con le diverse gradazioni e gravità con cui si presentano), non ci sono responsabilità da attribuire, ma cure e misure da approntare per proteggere le persone che ne sono afflitte e coloro con cui esse vengono a contatto. Il fatto, però, che esistano questi fenomeni fa riflettere su coloro che assumono atteggiamenti simili non perché malati, e dunque involontariamente, ma liberamente e per scelta variamente elaborata e formata.
Cultura dell’indifferenza
Oggi si deve parlare di cultura dell’indifferenza. È un clima spirituale e una sensibilità culturale quelli che si vanno sempre più diffondendo, legittimati in qualche misura dalla tutela dei diritti individuali e della riservatezza e della privacy. La giusta esigenza di salvaguardia e di rispetto delle singole persone finisce non raramente col rinchiudere gli individui nel loro orizzonte privato, lasciandoli nell’ignoranza più o meno estesa di ciò che succede attorno. Il paradosso sta proprio nel fatto che è possibile essere raggiunti in tempo reale da notizie che provengono dall’altra parte del globo e ignorare completamente quello che succede dietro l’angolo di casa. Ormai non fa più nemmeno impressione che si possa convivere in uno stesso condominio non sapendo dell’esistenza di quelli che vi sono domiciliati, fino al caso limite di persone che vivono e muoiono in completa solitudine, nella dimenticanza totale di chi risiede magari a pochi metri o separato solo da una parete. La cosa più triste è che simili casi non sono il frutto di chissà quale malvagità, ma di un sistema di vita e di un modo di pensare che va al di là della volontà di singoli, che poi come tali magari si trovano a fare anche tanto bene, sono generosi e erogano beneficenze a fondazioni e onlus per le più nobili finalità solidaristiche, ma poi non si accorgono di chi passa loro accanto o conduce con loro la sua esistenza gomito a gomito. Non siamo qui per condannare qualcuno, ma per capire un andazzo che ci danneggia tutti e rischia di distruggerci. Giustamente il Papa richiama l’attenzione sul fatto che le guerre e i conflitti di interi popoli e nazioni sono il frutto velenoso estremo di un sistema di indifferenza che cresce fino a volere e perseguire la distruzione dell’altro in nome della difesa del proprio mondo e del proprio interesse. C’è un unico filo che lega la negazione della differenza, la rimozione dell’altro, la cancellazione del diverso e i meccanismi di distruzione e di violenza che affliggono le grandi società e culture e innescano conflitti tra le nazioni.
Radice trinitaria della differenza
Per capire meglio il messaggio lanciato dal Papa, si potrebbe trasformare lo slogan nella formula seguente: “Se vuoi conquistare la pace, non temere di riconoscere la differenza e di accogliere chi è diverso da te”. È questa la vera sfida di una adeguata umanizzazione, una meta degna da indicare a chi lotta per una civiltà più umana, soprattutto uno stile all’altezza della fede cristiana che professiamo. Il nostro Dio, infatti, è l’esatto contrario, l’opposto di tutto ciò che può significare indifferenza. Egli porta la differenza dentro di sé: questo significa credere in un Dio uno e trino. Senza cancellare l’unità, in Dio c’è la differenza: il Padre, il Figlio e lo Spirito. A tal punto la differenza è importante per Dio, che ha voluto creare un mondo che senza la sua decisione creatrice non esisterebbe. Ancora di più: ha voluto creare un mondo in cui la materia ha una estensione inimmaginabile, e nulla è più diverso da Dio della materia, perché Dio è puro spirito. Ma è soprattutto l’uomo l’inno di Dio alla differenza: un essere che gli assomiglia, ma che non è Dio; soprattutto, un essere che arriva a volersi emancipare e staccare da lui, ma che egli rispetta nella sua libertà fino ad accettare di esserne rifiutato, e che tuttavia non cessa di chiamare e invitare a diventare suo figlio. La festa di oggi celebra esattamente questo: l’amore di Dio per l’essere umano è tale che ha voluto diventare uomo, cioè l’altro; Dio si è messo al posto dell’altro fino a diventare altro da sé: Dio è diventato il differente da Dio e lo ha portato dentro di sé.
Valore umano delle differenze
È per questo che noi possiamo e dobbiamo vincere l’indifferenza, perché essa è la negazione del nostro statuto umano costitutivo e tutte le volte che neghiamo colui che è differente da noi neghiamo noi stessi, neghiamo la nostra umanità. Lo vediamo scritto nella nostra struttura personale ed esistenziale. Pensiamo alla differenza uomo-donna: tutto nasce da questa mirabile invenzione, dalla bellezza di essere persone umane differenti; e la differenza sessuale è il primo indizio e la prima via per giungere alla conoscenza, al rispetto e all’apprezzamento, all’amore della differenza. Pensiamo poi alla nascita di una nuova creatura: che cosa c’è di più differente da noi di un bambino appena nato? Potrà assomigliare, avere tante caratteristiche affini ai genitori, ma non è nessuno dei genitori, è irriducibile ai genitori, è una persona radicalmente differente, è un altro da loro, e chiede di essere accolto come tale. Riconosciuto e amato nella sua differenza personale. Egli è una sorpresa per i genitori stessi, soprattutto per loro. Capiamo che cosa vuol dire allora cultura dell’indifferenza, quando vediamo tutti i tentativi di cancellare la differenza uomo-donna e tutti i progetti volti a ridurre un bambino a un oggetto del desiderio dei genitori o della donna, a una cosa, a un prodotto di cui fare ciò che si vuole, ciò che è la negazione della persona, la negazione della differenza radicale.
Sulla stessa linea si pone quella indifferenza su cui richiama insistentemente l’attenzione il Papa in riferimento a chi è povero, non ha i mezzi per andare avanti, è solo ed emarginato, debole e malato, o sofferente per qualsiasi motivo. Nei confronti di queste persone deve valere con una intensità particolare ciò che dovrebbe attivarsi nei confronti di tutti, e cioè la sensibilità per l’altro, la capacità di sentire il suo dolore, la sua pena, il suo disagio, il suo bisogno. Il prossimo, soprattutto povero e indigente, migrante e bisognoso, è un altro me stesso, è come me stesso, è me stesso, poiché non è mio merito se io non sono al suo posto, e non è una sua colpa se egli non è al mio posto. Bisogna dunque imparare a riconoscere nell’altro me stesso, nel differente da me colui che non solo mi chiede ma mi offre la possibilità di uscire da me stesso per diventare veramente me stesso. Non diventiamo persone finché rimaniamo chiusi nel bozzolo del nostro piccolo io, gretto e ripiegato su se stesso. Non è forse questa l’esperienza umana fondamentale? Quand’è che uno diventa veramente se stesso, uomo o donna? Quando diventa padre o madre, quando cioè è costretto a smetterla di pensare alla propria egoistica soddisfazione e deve cominciare a prendersi cura della creatura che ha messo al mondo.
Indifferenza e media
Non possiamo a questo punto trascurare una considerazione importante per non colpevolizzarci inutilmente. La nostra sensibilità oggi è plasmata in larga misura dalla comunicazione pubblica e privata in tutte le sue forme. Ogni giorno siamo raggiunti da una massa incalcolabile di notizie che riguardano drammi e tragedie di ogni genere in ogni parte del mondo. Il nostro organismo psicologico ha necessità di immunizzarsi di fronte a emozioni che se venissero assorbite con tutta l’intensità di cui sono portatrici ci distruggerebbero. Ma questo purtroppo ottiene, talora, l’effetto opposto, e cioè quello di abituarci, di assuefarci, così che anche i drammi più terribili non ci toccano più profondamente, per un processo involontario di autodifesa emotiva. In realtà, non è bene farsi distruggere dalla ipersensibilità; ma nemmeno è bene perdere ogni sensibilità. Abbiamo bisogno di imparare la compassione e la compassione è cosa diversa dalla emotività impulsiva ed eterodiretta. Purtroppo anche la solidarietà oggi è dominata dalle leggi del mercato. Come la pubblicità ha in certa misura un effetto compulsivo sul nostro acquisto di prodotti al supermercato, così accade anche per le notizie delle tragedie che si consumano nelle diverse parti del globo. Molti sono generosi facendo donazioni; ma se si osserva con attenzione la quantità e la direzione che prendono tante elargizioni, si vede che esse dipendono dall’impatto della comunicazione e non raramente anche dalla capacità dei gestori della comunicazione stessa di indirizzare in un senso o in un altro.
Ascolto e compassione
C’è molta generosità, ma spesso questa risponde a una reazione emotiva momentanea più che a una valutazione ponderata sul bene maggiore e più urgente da fare; sembra cioè rispondere a un proprio bisogno più che all’esigenza dei destinatari bisognosi. Qualcuno dirà che l’importante è fare del bene; ma anche il bene va fatto bene, altrimenti rischia di non servire. Anche avere compassione richiede intelligenza e attenzione all’altro. Abbiamo bisogno di imparare sempre di più l’ascolto degli altri e della realtà. È facile dare sfogo alle proprie emozioni e assecondare il loro impulso istintivo, meno facile dare ascolto alla voce e alla richiesta dell’altro. Proprio in questa prospettiva dobbiamo allora indirizzare la nostra attenzione. A questo scopo propongo alcune piste di riflessione e di impegno che hanno valore esemplificativo ma spero siano utili a intraprendere con decisione la lotta contro l’indifferenza, affinché riusciamo a conquistare una pace più grande attorno a noi in questo nuovo anno che inizia e oltre.
Tre piste per capire e agire
La prima pista interessa soprattutto noi che portiamo pubbliche responsabilità nei vari settori della vita istituzionale, civile e sociale, oltre che ecclesiale. So bene che c’è tanta generosità e dedizione nello svolgimento del proprio lavoro da parte di tanti di noi. Dobbiamo però chiederci se siamo sempre consapevoli e siamo sempre attenti alle conseguenze che le nostre decisioni e i nostri atteggiamenti producono sulle persone che saranno alla fine raggiunte dalle nostre prese di posizione. La prima garanzia di questa attenzione è il rispetto delle leggi e delle regole; ma, assicurato questo imprescindibile rispetto, dobbiamo chiederci e operare affinché tutti coloro che subiscono gli effetti delle nostre decisioni e dei nostri comportamenti ne ricevano il beneficio maggiore.
La seconda pista la riferisco a tutti noi come cittadini, convocati periodicamente a esprimere la nostra partecipazione democratica alla vita della collettività attraverso il voto. Vincere l’indifferenza e imparare a guardare all’altro significa chiedersi quale effetto produrrà il mio voto sul bene non solo della mia parte ma anche di tutti gli altri e dell’intera collettività, dell’andamento complessivo della comunità vuoi cittadina o di qualsiasi altro livello della vita associata.
Infine l’ultima pista invita a superare l’indifferenza verso chi sta veramente male, non solo persone senza fissa dimora e immigrati più o meno sbandati, ma anche persone senza lavoro, famiglie senza reddito fisso, giovani e meno giovani senza risorse, persone che non sono in grado di far valere le loro esigenze e di cui nessuno si prende cura né direttamente né in rappresentanza. Proprio questi ultimi, che spesso sono anche gli ultimi della società, sono il biglietto da visita della civiltà o meno di una comunità umana, oltre che religiosa, e del grado di civiltà che essa ha raggiunto.
Il messaggio ci è arrivato. A noi adesso raccoglierlo.
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