Saluto al Consiglio direttivo della DiSAL (09/11/2017 – Latina)

19-11-2017

Consiglio nazionale DiSAL

9 novembre 2017

C’è una nuova missione della scuola?

+ Mariano Crociata

Oggi si ascoltano molte voci sulla scuola e tra di esse non mancano quelle che ne preannunciano addirittura la fine. Certo essa conosce concorrenti a dir poco agguerriti, primo fra tutti il mondo dei nuovi media, che ne indeboliscono considerevolmente l’immagine e l’efficacia. Ciononostante la scuola è ben lontana dall’aver esaurito la funzione sociale e culturale che la collettività le affida, pur con tutte le difficoltà che la assediano da ogni parte, a cominciare dalle trasformazioni dell’orizzonte culturale degli studenti per effetto di fenomeni sociali particolarmente pervasivi come la pluralità delle idee e delle etiche, le possibilità sempre più precoci di un uso autonomo del proprio tempo e della propria libertà, l’incertezza del futuro lavorativo; e ancora, l’indebolimento della figura degli insegnanti, il rapporto non sereno e non raramente conflittuale tra famiglia e scuola, la riduzione crescente delle risorse economiche dedicate, le dissonanze organizzative per effetto del succedersi e sovrapporsi di riforme solo in parte attuate e completate.

Le questioni di fondo non per questo svaniscono, ma piuttosto si intrecciano a queste osservazioni che, peraltro, richiederebbero ben altre analisi per cogliere la situazione della scuola nella sua complessità, con le sue ombre e le sue luci. La prima di tali questioni concerne il rapporto costitutivo che lega la scuola alla società di cui è espressione. La sua funzione, infatti, dopo e accanto alla famiglia, è preparare dalle nuove generazioni i nuovi membri della collettività, in modo tale da abilitarli a raggiungere la capacità di contribuire a farla vivere e progredire. Ciò presuppone che la società, di cui la scuola è espressione e strumento educativo, abbia una sua coerenza e unità di fondo. Ora proprio questo aspetto è entrato in affanno, al punto da mettere in crisi tutto l’impianto scolastico. Tante misure che cercano di ovviare a tale difficoltà risultano, poi, non congruenti e non colpiscono nel segno, perché non colgono il problema e non forniscono la risposta appropriata.

La pluralità – o forse è meglio dire il pluralismo – è ormai una dimensione divenuta insuperabile, da molti considerata non solo un dato di fatto irreversibile ma perfino una conquista. Certo tale fenomeno non solo legittima la presenza di gruppi sociali differenti per ragioni culturali, etiche e religiose, ma consente anche al singolo individuo di dare espressione alla sua personalità e alla sua libertà senza costrizioni e limitazioni di sorta. Questo risultato positivo, nondimeno, non può essere di fatto nemmeno conseguito se la società in cui il singolo si colloca non ha almeno un nucleo di elementi che consentano ancora di parlare di un insieme dotato di una qualche unità e coerenza, che permetta di convivere consentendo a ciascuno di essere se stesso senza impedire ad altri di esserlo ugualmente. La fatica di trovare questo terreno comune si riflette sulla scuola con effetti non certo promettenti.

Si deve senz’altro affermare che la costituzione repubblicana offre la cornice entro cui formalmente le culture della società italiana dovrebbero trovare il contesto di convergenza e di coerenza; il punto critico sta, però, nel constatare quanto a tale condizione formale non sempre corrisponda una adesione sostanziale, sia pure di massima.

Infatti la svolta in direzione del modello delle competenze, e cioè delle capacità e abilità di cui lo studente deve imparare a disporre per diventare membro attivo della collettività, può essere senz’altro letta in chiave personalista; ma là dove viene adottata in forma neutrale, essa prende sviluppi che possono aprire scenari diversi e divergenti sul piano didattico e soprattutto educativo. La scuola delle competenze, delle conoscenze e delle abilità, infatti, finisce con l’essere vissuta sbrigativamente in chiave funzionalista. Non a caso prevale una cultura tecnocratica che coinvolge sempre più anche la scuola, dal dominio delle nuove tecnologie alla ricerca di sempre nuovi parametri di efficienza (per lo più quantitativi) che vengono spacciati per misuratori della “qualità” di una funzione che dovrebbe, sempre e comunque, essere fondata sulla relazione educativa.

Si intreccia con tale tendenza, l’idea diffusa che le convinzioni ideali ed etiche ciascuno se le deve formare e scegliere privatamente, come estranee alla dimensione pubblica e sociale, mentre le tecniche, gli strumenti e i metodi devono essere forniti dalla scuola in quanto ammessi al pubblico confronto e necessari all’inserimento sociale e al conseguimento di una adeguata socializzazione. Si tratta di un percorso che, in realtà, salta un passaggio, perché tecniche, strumenti e metodi non vivono da soli, non sono neutri, ma si incarnano e operano entro una visione della persona, della vita, della realtà, servono una finalità e un senso da cui vengono qualificati. Di più, la loro assimilazione e la loro adozione non può essere compiuta da un soggetto umano che non sia diventato persona e che non abbia assunto un suo orientamento entro la realtà. E l’orientamento non può essere inventato e creato; può solo essere ricevuto, riconosciuto, accolto e rielaborato.

In una situazione plurale gli orientamenti e le visioni della persona, della vita e della realtà sono diversi tra loro. La scelta corrispondentemente sostenibile non è quella di relativizzare i singoli orientamenti per non farli entrare in conflitto, ma quella di farli convivere nel rispetto delle identità e delle persone, e nel dialogo costruttivo. E perché ci sia dialogo, è necessario avere persone diverse, per orientamento e scelta, che abbiano motivo e volontà di conoscersi e comprendersi proprio perché diverse, formate nella rispettiva identità e accoglienti, rispettose, con una attitudine dialogica le une nei confronti delle altre. Per queste ragioni, nell’opera educativa e nella scuola si tratta di cominciare dalla proposta di una determinata visione ed esperienza della realtà, ordinariamente da quella a cui il ragazzo o lo studente appartengono per nascita e vicenda di vita, che sola abilita all’incontro e al dialogo.

Tutto il dibattito sul ridimensionamento, se non addirittura espulsione, della cultura umanistica dalla scuola non fa che rimandare ultimamente a tale questione. È vero che recenti interventi ne hanno cercato di recuperare la formula, ma esse vanno nella direzione di promuovere la creatività soprattutto nei settori della espressività artistica (dalla musica al teatro, al cinema e al design), non ultimo con un occhio alle logiche di mercato. Non si tratta nemmeno di contrapporre cultura scientifica e cultura umanistica, o istruzione tecnico-formale ed educazione globale-personale, ma di comporle in un equilibrio che non ignori la questione del senso e della visione complessiva della realtà, senza per questo rinunciare ad abilitare all’acquisizione di strumenti e tecniche necessari alla crescita di una persona nella società di oggi.

A tale scopo, valorizzare la carta costituzionale come punto di riferimento ideale e valoriale è imprescindibile, ma senza rinunciare a dar carne al suo scheletro con le visioni di cui le tradizioni culturali attive nel nostro Paese o introdotte dalla presenza crescente di immigrati sono portatrici. Solo di fronte ad una proposta di tale portata la formazione umana compiuta di uno studente lo rende capace di capire e scegliere, al limite anche in contrasto con la cultura di appartenenza, ma non senza averla prima assimilata e rielaborata. Il mito della pura espressività e creatività di un essere umano non ancora formato produce solo disastri non solo morali ma anche fisici e materiali, perché rende inabili a guidare e rispettare se stessi oltre che gli altri.

Non c’è dubbio, allora, circa il bisogno di una nuova missione della scuola. Tanto più che sembra che da più parti si sia rinunciato semplicemente a riflettere sulla sua missione. Soggetti politici e sindacali si mostrano preoccupati di aspetti senza dubbio molto seri come quello dell’occupazione, ma non di collocarli entro un quadro più ampio e completo di visione della scuola e dei suoi compiti. Non si può infatti trascurare, e tanto meno omettere, che la scuola ha la missione di formare la persona nella sua interezza in un contesto non più integrato e omogeneo come un tempo, ma in un mondo globalizzato e plurale talora fino alla contraddizione. Il punto cruciale nell’incontro tra le diverse culture e nel compito educativo in un ambiente plurale rimane la persona nella sua costitutiva socialità. Non sia considerata una forzatura il riferimento al nostro ambito di un’idea che papa Francesco ha espresso a proposito di Europa in un suo recente discorso: «È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio». E aggiungeva: «Riconoscere che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità. Dunque il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità» (Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla Conferenza “(Re)thinking Europe”, organizzata dalla COMECE in collaborazione con la Segreteria di Stato, 28 ottobre 2017).

Il paradosso consiste proprio nel fatto che avvertiamo nello stesso tempo l’assenza e il bisogno di persona e di comunità, inseparabilmente. Di persona, perché la deriva funzionalistica e strumentale di tanta istruzione scolastica manca l’obiettivo di un aiuto a diventare persona a cui ragazzi e giovani di oggi anelano ardentemente magari senza rendersene pienamente conto. Di comunità, perché senza un orizzonte di vita e di futuro disegnato da un gruppo umano omogeneo e significativo, nessuno sa chi è, chi deve essere e che cosa può diventare; non sa soprattutto che cosa significa essere umani e perché esserlo.

La scuola può e deve molto in questa prospettiva. Proprio essa e tutti coloro che in essa operano, come singoli o in associazione, dovrebbero riprendere quella riflessione sulla missione della scuola che appartiene a tutti. I docenti e i dirigenti credenti, poi, hanno la responsabilità per primi di disegnare quell’orizzonte di senso, di persona e di comunità, che in qualche modo si invera nel popolo dei credenti. Perché, senza una sana circolarità di cui deve vivere la scuola, in realtà nessuno dei suoi compiti può essere adempiuto: un’idea compiuta di persona ha bisogno di un contesto umano comunitario in cui si possa riconoscere che cosa significa essere persone; d’altra parte, una comunità a cui fare riferimento non può essere inventata, ma solo incontrata e sperimentata nella Chiesa di Cristo. Di qui il compito si sposta su noi pastori e fedeli, che abbiamo la responsabilità di dare corpo a comunità concrete in cui si possa riconoscere ciò a cui cerchiamo di dare un nome e un significato. Da questo punto di vista, le scuole cattoliche hanno il pregio, e insieme la sfida, di mostrare il loro rapporto organico con una comunità che spiega il senso del progetto che le ispira.