Omelia per l’ingresso del nuovo parroco della cattedrale di San Marco, don Francesco Pampinella (13/10/2019 – Cattedrale san Marco)

13-10-2019

OMELIA

Domenica 13 ottobre 2019, XXVIII TO C

Ingresso del nuovo parroco della Cattedrale di San Marco

+ Mariano Crociata

L’avvicendamento di persone nel ruolo di responsabili di una parrocchia è un fatto, per così dire, fisiologico. La nostra diocesi ne fa esperienza ogni anno per un certo numero di casi. Dentro l’ordinarietà della circostanza fluisce però la nostra storia di vita, personale ed ecclesiale, quella dei parroci che si succedono, ma anche quella delle comunità. Trascorrere alcuni anni della propria vita in un luogo, in una parrocchia, è per un prete concretamente spendere la propria vita, perderla e guadagnarla allo stesso tempo: perderla, perché gli anni dedicati ad una parrocchia si consumano solo per essa; guadagnarla, perché così facendo egli risponde alla chiamata del Signore e realizza lo scopo della sua vita. Ma anche una comunità parrocchiale, in un passaggio come questo, è chiamata a decidere di se stessa, se e come vuole rispondere ancora all’appello del Signore a credere e a vivere nella fede in Lui sotto la guida del nuovo pastore.

Quello che stasera compiamo potrebbe essere considerato un atto formale, quasi burocratico, di conferimento ufficiale dell’incarico al nuovo parroco, o anche una circostanza casuale. In realtà è qualcosa di più, anzi molto di più: la Chiesa continua la sua missione in questa terra, in questa diocesi, in questa parrocchia; una persona, un prete preciso, con un volto e un nome, con la sua identità e la sua storia, si impegna ad assumere la responsabilità di parroco, rinnova così la sua risposta alla vocazione, reinveste la sua esistenza sacerdotale nel servizio a questa comunità, riceve rinnovata dal Signore la grazia del sacramento dell’ordine e la responsabilità del ministero pastorale; ma poi anche, questo suscita e chiede una risposta generosa e impegnata pure a voi, alla comunità parrocchiale, che insieme a lui siete invitati ad accogliere il dono di Dio che con l’eucaristia colma tutti di quella grazia che rende possibile l’esistenza nella fede e nella Chiesa di tutti e di ciascuno. Ancora una volta si manifesta in atto il disegno di Dio, nel quale ciascuno di noi trova posto; perciò si tratta di noi e di tutti noi, si decide della nostra vita, di quella di don Francesco, della vostra, della mia, alla presenza di Dio e grazie a Lui, che muove e indirizza i nostri passi, i nostri pensieri e le nostre decisioni, e conduce la nostra vita nella comunione con Lui e all’incontro con Lui.

Per tutto questo possiamo e dobbiamo rendere grazie. Grazie a don Andrea, per il ministero che ha svolto in mezzo a noi. Grazie a don Francesco Pampinella, che ha accolto la chiamata a venire qui, ha scelto ancora una volta di dire sì a quanto il Signore gli ha chiesto e si accinge a intraprendere il suo servizio di parroco e a continuare la missione della Chiesa. A lui diamo la nostra affettuosa e gioiosa accoglienza, il benvenuto più caloroso e l’augurio più sentito per il nuovo ministero. Grazie anche a voi, fedeli e collaboratori di questa parrocchia, per la vostra fede che vi ha raccolti qui stasera per stringervi attorno al nuovo parroco, ma che manifesta anche il desiderio di camminare insieme a lui, per edificare sempre di nuovo questa bella comunità parrocchiale e per introdurre le nuove generazioni nello spazio di quella fede di cui viviamo e da cui ci sentiamo sostenuti e sospinti ad andare avanti.

La vostra comunità ha una peculiarità, di cui non è capitato di parlare in altre occasioni. Insieme alla identità salesiana della comunità presbiterale, e non solo di essa, questa parrocchia presenta un caratteristica unica nel panorama diocesano, poiché è la parrocchia cattedrale, dove risiede la cattedra del Vescovo, dalla quale egli esercita il suo ministero di pastore della nostra Chiesa particolare, quando insegna, quando celebra, quando governa. La peculiarità consiste nella responsabilità e nella capacità di comporre insieme, coltivando il carisma salesiano, la vita parrocchiale e il servizio al Vescovo e alla diocesi. L’esperienza positiva di questi anni conferma che non solo ciò è possibile, ma è anche fecondo. Ogni volta e sempre di nuovo siamo chiamati a corrispondere e abbracciare quanto il Signore ci chiede per colmarci dei suoi beni. Così accade anche oggi. Tre indicazioni ci aiutano in tale orientamento. Innanzitutto il fatto che voi, fedeli laici e collaboratori, non siete spettatori passivi di quanto avviene altrove e per altri. La ricca vitalità della comunità parrocchiale, che ho avuto modo di conoscere da vicino nell’incontro dello scorso anno, mi conferma nella convinzione del vostro senso di responsabilità e di partecipazione. Poi, la coscienza che siete chiamati ad una forma di esemplarità. L’essere la parrocchia di riferimento del Vescovo e della diocesi, non costituisce una circostanza estrinseca e puramente funzionale, che riguardi quasi solo l’edificio e qualcuno di volta in volta, ma tocca il vostro modo di essere Chiesa e di essere nella Chiesa. Dentro tutti i compiti che vi sono affidati c’è questo: che tutte le comunità parrocchiali possano essere aiutate, guardando alla vostra comunità, a rispondere a loro volta sempre meglio alla missione che la Chiesa affida loro sotto la guida del Vescovo e nella comunione con lui. Infine, abbiamo sempre bisogno di alimentare il dialogo, a cominciare da quello con il Vescovo e prima ancora del Vescovo con voi, ma certo anche tra di voi, perché tutto si compia nella ricerca sincera e nella volontà determinata della comunione nel Signore Gesù.

In tal senso le pagine bibliche di questa domenica mettono sulla bocca di Dio una parola che vale singolarmente per noi. Anche noi abbiamo bisogno di essere guariti e abbiamo fatto numerose volte esperienza di guarigione. Il Vangelo ci invita anzitutto ad apprendere la capacità di ringraziare. Ringraziare non è questione di parole o di formule o ancora di formalità, adempiute le quali tutto torna all’ordine consueto. Ringraziare è questione di sentimento profondo, è capacità di percepire e riconoscere la propria condizione come essenzialmente debitrice. Noi esistiamo e viviamo perché qualcuno ci ha scelto e ci ha consentito di andare avanti e ce ne ha offerto sempre nuova possibilità ad ogni passaggio difficile della nostra storia, dandoci sempre nuove opportunità.

Chi non ha questo senso profondo di riconoscenza, di gratitudine essenziale, non è nemmeno capace di credere. Per credere bisogna capire radicalmente di non essere nulla senza gli altri, bisogna rendersi conto che dobbiamo noi stessi a qualcuno altro che non siamo noi. Oggi questo è diventato difficile, perché veniamo educati nella pretesa illimitata dei diritti senza alcun riconoscimento dei propri doveri, e questo fin dalla più tenera età: tutto ci è dovuto, mentre non dobbiamo niente a nessuno. Questo alimenta una sensazione di irreale autosufficienza, un profondo solipsismo, un isolamento e un’arroganza che chiudono agli altri e fanno diventare i rapporti un luogo permanente di scontro, anche solo verbale, che alimenta un clima di durezza, di volgarità e rozzezza, di inciviltà. Finezza d’animo e sensibilità umana sembrano diventate sinonimo di debolezza. Ma finezza e sensibilità ci vogliono per sentire gratitudine e ci vogliono per credere. Abbiamo bisogno di riflettere su questo, anche per capire la natura del nostro essere cristiani. Che non è altro se non fidarsi incondizionatamente di Colui che ci ha creati e salvati, perché noi siamo costitutivamente debito, siamo degli scampati e dei salvati, grazie alla morte e risurrezione di Gesù che ne rinnova l’efficacia per noi nella Parola, nei sacramenti, soprattutto l’Eucaristia, nell’ amore fraterno.

Ciò che Gesù vuole per noi è solo che facciamo fiorire nel nostro cuore gratitudine e riconoscenza per i doni di Dio. Egli non è offeso dalla dimenticanza degli altri nove, rispetto all’unico che è tornato, e non è gratificato da quest’unico che è tornato non tanto per ringraziare quanto per rendere gloria a Dio. Non è come noi, che basta poco per sentirci risentiti, che ci offendiamo quando qualcuno non ci ringrazia (“Non mi ha detto nemmeno un grazie”, che poi magari ci vorrà pure). Gesù è rammaricato perché i nove non hanno fatto il passo non solo verso la gratitudine, ma nemmeno verso il riconoscimento di Lui, l’inviato e il Figlio, il passo verso la salvezza. Gli altri nove sono purificati e guariti, ma solo al decimo Gesù dice di essere salvato, salvato per la fede in Lui.

La Chiesa c’è perché possiamo aiutarci a vicenda a imparare l’esperienza che dalla guarigione conduce alla riconoscenza e alla fede, e quindi alla salvezza. È questa in sintesi anche la missione pastorale di un parroco, il quale tutto fa perché i fedeli che si accostano a lui e la comunità che presiede imparino sempre di nuovo a fare il cammino dalla gratitudine, alla fede, alla salvezza. È bella in questo senso l’immagine che il Vangelo ci consegna: “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Noi siamo quelli che tornano indietro. Il ritmo settimanale è come l’esperienza di chi nella corsa dei giorni fa piccole e grandi esperienze di guarigione, e alla fine, la domenica, torna indietro, all’Eucaristia, a Gesù, per ringraziare e aprirsi di nuovo al dono della fede che salva.