All’indomani dell’arrivo a Latina

Intervista concessa a "Lazio sette", 22 dicembre 2013
18-06-2014

Bisogna lasciar rifiorire il nostro desiderio di Dio

di Pasquale Bua

Eccellenza, il passaggio dalla Segreteria Cei a Latina è un po’ come quello dalla cabina di regia al set: idee e proposte elaborate per le diocesi d’Italia – e da poco raccolte nel volume Pensare da credenti (San Paolo, 2013) – si caleranno ora nel vissuto della Chiesa pontina. Da che parte iniziare?

La possibilità di visitare tante diocesi e di incontrare molte persone e realtà ecclesiale già mi ha dato, in questi anni, l’opportunità di stare sul set, per riprendere l’efficace immagine. C’è un’interazione tra progetti e realtà, che chiede ora un ulteriore momento di verifica, senza dubbio con quel modo peculiare e ordinario che è condividere dal di dentro la vita delle comunità ecclesiali. Bisogna comunque cominciare – e continuare – dall’incontro e dall’ascolto. I progetti ecclesiali si elaborano insieme, nella comunione, pur esercitando ciascuno la propria peculiare responsabilità, a cominciare da quella speciale del Vescovo.

Il suo predecessore ha insistito sulla maturazione di una spiritualità di comunione. Come rilanciare questa eredità, favorendo esperienze di collaborazione a tutti i livelli della vita ecclesiale?

La spiritualità di comunione è il cuore stesso dell’esperienza ecclesiale, come del resto in modo particolare il Concilio Vaticano II ha contribuito a rimettere in auge. Essa cresce, semplicemente, curando le relazioni a tre livelli: il primo con il Signore, in modo particolare nella liturgia e nella preghiera, il secondo all’interno del presbiterio e con il Vescovo, il terzo tra tutti i membri della comunità ecclesiale, senza distogliere lo sguardo dagli altri e in particolare da chi più soffre.

Il suo libro si concentra sull’idea di popolo. Quello pontino è un popolo “nuovo” ed eterogeneo, ancora molto frammentato. Come operare per farne un popolo in cui «possono esserci tutti, e nessuno può venire escluso preventivamente» (p. 24)?

Già vado imparando a conoscere e amare questo popolo pontino. Verrebbe da fare un duplice accostamento, storico-biblico e attuale. La massa uscita dall’Egitto nell’epico esodo di liberazione era un’accozzaglia alquanto eterogenea. Ciò che l’ha resa popolo è stata la guida di Dio lungo gli anni del cammino attraverso il deserto. L’Italia di oggi – come altri Paesi europei – può essere rappresentata come la proiezione in grande della situazione e del processo che il nostro territorio ha vissuto negli anni della bonifica e ora di nuovo si trova a vivere per l’ondata di immigrazione straniera. Siamo chiamati a fare tesoro della storia della fede e della condizione presente. Si apre un futuro promettente. Anche questa può diventare una terra di libertà.

I cristiani sono chiamati a «farsi carico di un popolo che non è, nella sua totalità, popolo cristiano» (p. 30). Anche a Latina la secolarizzazione erode l’appartenenza religiosa. Come rendere la diocesi pontina “casa invitante” per quanti non credono?

Non so immaginare le condizioni concrete in cui un tale percorso può realizzarsi. Mi piace sognare qualcosa che potrebbe già essere realtà da qualche parte: far crescere comunità cristiane nelle quali la fede è davvero fermento di unità tra persone diverse per razza e cultura, così da formare nuclei di una società rinnovata dalla volontà di convivenza, di aiuto reciproco, di crescita insieme. La Chiesa – in modo particolare oggi – ha il compito di mostrare che, se si crede, si vive meglio, si sta meglio insieme, si riesce a fare qualcosa di buono per tutti.

Lei ha lavorato sul fronte del dialogo interreligioso. L’Agro pontino è oggi crogiuolo di etnie e religioni, che spesso faticano a convivere. Come può la Chiesa diventare lievito di integrazione?

Il dialogo interreligioso si presta molto più alla retorica che all’esperienza effettiva. Anche per una ragione molto semplice: le motivazione dell’incontro e dello scambio sono per lo più di carattere non religioso, spesso legate alla condizione estrema di indigenza e di bisogno materiale. Bisogna partire da questa situazione estremamente concreta per riscoprire tutti il bisogno di Dio. L’incontro avviene a partire dalle domande di fondo. Bisogna lasciar riaffiorare il desiderio di Dio. Secolarizzazione e dialogo interreligioso sono molto più intrecciati di quanto si pensi.

L’altra parola chiave del libro è famiglia. Nel dopo-Sinodo la diocesi pontina ha messo a tema proprio questo argomento. Come ripensare la pastorale, spesso sbilanciata su bambini e anziati, puntando di più sulla famiglia, questione che tocca in fondo la «felicità delle persone» (p. 86)?

La famiglia è questione cruciale della vita di oggi e la Chiesa ne è ben consapevole, se solo passiamo dal Sinodo diocesano a tanti momenti ecclesiali significativi come la Giornata mondiale di Milano, la Settimana sociale di Torino e ora il prossimo Sinodo dei Vescovi. Bisogna uscire da una logica asfittica di coppia. L’amore sponsale si compie quando si apre, verso l’alto e verso gli altri. Verso l’alto, perché il suo fondamento è sacramentale ed esso ha bisogno di nutrirsi di un’altra presenza, di Dio. E poi verso gli altri, perché un amore sponsale vero è costitutivamente fecondo, aperto alla vita, generatore di nuove relazioni e di fraternità.