Saluto convegno su p. Urbano II (16/03/2019 – Terracina)

16-03-2019

SALUTO

Convegno su Urbano II

Terracina, 16 marzo 2019
✠ Mariano Crociata

 

Volentieri porto il mio saluto a questo convegno sulla figura e l’epoca di papa Urbano II, eletto al soglio pontificio proprio qui, nella cattedrale di Terracina. Mi è stato chiesto di esplicitare le ragioni di una giornata di studio. Penso che saranno le relazioni a dirne il senso. Nondimeno non mi sottraggo a una considerazione di carattere generale che interpreti che cosa ha spinto tutti noi a ritrovarci per questo incontro.

Ho presente il dibattito che emerge ogni tanto sui media nazionali circa la presenza dell’insegnamento della storia nelle nostre scuole. Esso segnala la tendenza, criticata da più parti, a emarginare la storia – come del resto altre materie umanistiche – a favore di discipline più tecniche o comunque più idonee a predisporre gli studenti all’acquisizione di competenze più immediatamente professionalizzanti, utili all’inserimento nel mondo del lavoro. Una preoccupazione, questa, sacrosanta, soprattutto se messa a confronto con una scuola avulsa dalla società e dalle sue dinamiche, come talora è apparsa quella del passato. Nondimeno viene facile osservare che in tal modo si rischia di perdere l’equilibrio necessario tra questa esigenza e l’esigenza di educare, di aiutare il ragazzo e il giovane a crescere con una personalità umanamente equilibrata, dotata di maturità di giudizio e di consapevolezza critica nell’affrontare la realtà e orientarsi in essa. Non è un caso che tali trasformazioni dell’impianto scolastico, ormai da un po’ di anni, siano avvenute in concomitanza con una evoluzione della società e della cultura tendente a rimuovere il ricordo e il passato. Solo che quando si dimentica il passato si perde anche la capacità di guardare al futuro. Da troppo ormai appare ovvia la constatazione di trovarsi di fronte a una generazione che vive immersa, e quasi incapsulata, in un presente senza tempo, priva di memoria e di prospettiva, in una sorta di malattia spirituale che toglie il respiro perché chiude ad ogni oltre, temporale ma anche personale, affettivo, intellettuale. La rimozione della storia è un sintomo di tale condizione spirituale del nostro tempo, ma anche la causa di un sensibile impoverimento culturale.

A questo ultimo riguardo, un attento osservatore delle dinamiche sociali e religiose contemporanee, Olivier Roy, rileva un fenomeno che chiama di ‘deculturazione della religione’, la quale non tocca solo la religione. «In sostanza, le persone che si aggrappano alla fede e che si dicono credenti […] non sono impegnati in una ricerca culturale. Ciò che li interessa non è né la cultura, né l’istituzionalizzazione del religioso. Si tratta di una ricerca individuale, magari individualista […]. Il che va di pari passo con la deculturazione del religioso […]. Mentre la cultura dominante è analfabeta rispetto alla religione, le comunità di fede hanno un problema con la cultura, che per loro è diventata pagana più che profana, e che appare minacciosa. […] Ma si fa molta fatica a ricostruire una cultura religiosa, perché le persone nelle comunità di fede non si interessano alla cultura in quanto tale. Dietro la crisi del religioso sta evidentemente una crisi della cultura» (O. Roy, in «Vita e Pensiero» 1, 2019, 74-75).

Cultura vuol dire consapevolezza, elaborazione e riflessione del proprio vissuto e delle sue ragioni, capacità di relazionalità e di costruzione comune del senso della vita. Tutto questo si perde sempre di più per tutti, quando si rinchiudono nel loro privato; e anche l’esperienza religiosa, eminentemente comunitaria, si riduce sempre di più a esperienza solitaria e intimistica. In pericolo non è solo la dimensione religiosa, ma l’identità stessa dell’umano, perché, svuotato della costruzione comune del senso, si impoverisce e implode.

In questo contesto, fare storia significa coltivare la memoria, alimentare il senso di appartenenza a una storia, a una comunità, a un cammino condiviso da generazioni che hanno preparato il presente, lo rendono intellegibile e motivano l’operosità e la progettualità dell’attuale generazione.

E tuttavia, fare storia di eventi così distanti da noi, come l’epoca nella quale si colloca Urbano II, può suscitare, da questo punto di vista, una impressione di poca rilevanza. In realtà la sua fecondità è proporzionatamente maggiore, in ragione della profondità della sua azione su di noi. Ciò che è più remoto non appare alla coscienza di oggi ma agisce non meno efficacemente di ciò che è presente alla nostra attenzione attuale. Analogamente a come, sul piano personale di ciascuno di noi, ciò che agisce nell’inconscio e che proviene dalle più lontane esperienze dell’infanzia influenza il nostro essere e opera ben più potentemente di ciò che forma l’oggetto delle nostre ordinarie occupazioni e preoccupazioni. Le generazioni che ci precedono sono state plasmate anche da vicende come quelle di cui oggi parliamo. Lo stesso immaginario collettivo di questa città è stato disegnato anche da questa presenza e da queste vicende racchiuse simbolicamente in un luogo come quella che è stata per secoli la cattedrale, il centro e il punto di riferimento del sentire comune e del suo costruirsi come progetto di città e di chiesa lungo secoli di storia di cui noi siamo gli ultimi eredi.

Anche questo – sono convinto – contribuisce a ravvivare la coscienza del presente e a suscitare il desiderio di fare comunità e di preparare insieme un futuro in cui non solo proiettare ma anche rendere efficaci aspirazioni e speranze.

È questo anche il mio augurio.