Relazione al Presbiterio di Velletri su “Evangelii gaudium”

Velletri, 17/10/2014
17-10-2014

PRESENTAZIONE DELLA EVANGELII GAUDIUM

Al presbiterio di Velletri, 17 ottobre 2014

+ Mariano Crociata

La novità dell’Esortazione

L’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium” (24 novembre 2013) di papa Francesco segue e completa il percorso del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, ma non è il semplice frutto di un Sinodo: ne ingloba i risultati (si vedano i numerosi rimandi alle Propositiones) ma presenta un altro orizzonte e una finalità più vasta (non porta la qualifica di post-sinodale e utilizza, in proporzione, molto poco la formula ‘nuova evangelizzazione’). Commentatori l’hanno definita giustamente un documento programmatico.

Il Sinodo, infatti, rientra nel contesto in cui nasce il documento, ma non ne costituisce l’unico elemento. Insieme ad esso bisogna considerare soprattutto il cambio di pontificato e la conseguente esigenza di dare voce all’indirizzo che il nuovo Papa ha voluto imprimere al cammino della Chiesa. Continuità e discontinuità si intrecciano fortemente nell’Esortazione, ma la novità non è determinata tanto dai contenuti, che pure non manca, bensì soprattutto dall’orizzonte, dallo stile e dalle prospettive. L’orizzonte è ormai nettamente più vasto di quello eurocentrico e occidentale; lo stile ha lasciato cadere un certo tono aulico per fare spazio a uno di tipo colloquiale, e quasi confidenziale, in ogni caso linguisticamente immediato e il più delle volte anche diretto; quanto alle prospettive, il testo propone un metodo che persegue una trasformazione profonda nel modo tradizionale di fare azione pastorale. In questo quadro, motivo unificante il documento deve essere considerata l’evangelizzazione, intesa nel suo senso più vasto, comprensiva dell’intera missione della Chiesa, sul cui sfondo è necessario tenere presente l’evento conciliare unito al magistero di Paolo VI, e l’esperienza della Chiesa in America Latina sotto la guida dei suoi episcopati. L’intuizione e la convinzione che trovano espressione nella Esortazione si racchiudono nell’idea che la Chiesa e il mondo di oggi hanno bisogno di un nuovo e profondo movimento di evangelizzazione.

Per esprimere le idee portanti che vi sono contenute e che strutturano l’intero testo, bisogna innanzitutto cogliere le domande da cui nascono, e con le domande delineare ancor prima la comprensione e il giudizio sul momento presente e sulla situazione della Chiesa.
L’immagine, non delineata tematicamente ma che sta sullo sfondo e spiega le varie prese di posizione, è quella di una Chiesa stanca, in affanno, piuttosto preoccupata di se stessa e della propria conservazione, con dinamiche interne piuttosto viziate da meccanismi e abitudini mentali e relazionali anacronistici, in qualche modo con lo sguardo rivolto al passato, timorosa nei confronti di un futuro percepito alquanto incerto se non minaccioso. La causa viene individuata in quella che il Papa chiama «mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa», e «consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale» (n. 93). Al contrario, tutto nella Chiesa deve trasformarsi in «un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (n. 27).

In una situazione percepita con tali caratteristiche, le domande che nascono riguardano il modo come risvegliare e rilanciare la trasmissione della fede e la missione della Chiesa nel nostro tempo.

La prima risposta che l’Esortazione suggerisce ribalta il giudizio sulla contemporaneità: a un atteggiamento prevalentemente negativo e pessimistico, che considera credenti e non credenti di oggi persone da guardare quasi con sospetto in relazione all’integra recezione e trasmissione della fede cristiana o, anche, da correggere e irreggimentare per frenare le derive devianti in cui si vedono incappate, si passa a un atteggiamento decisamente positivo, che vede nelle persone di questo tempo creature bisognose, sì, di misericordia e di accoglienza, ma comunque portatrici di molteplici elementi positivi e in ogni caso riconducibili a una esperienza genuina e nuova della fede cristiana.
Dicendo questo, non si deve pensare che lo sguardo del Papa sia di tipo irenistico. Bastano alcuni riferimenti per rilevarlo.

Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. […] Anche i credenti corrono questo rischio […]. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita (n. 2).

          Egli riconosce nella cultura dominante il prevalere di ciò che è «esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza» (n. 62). Oggi si afferma un «individualismo […] che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari» (n. 67). In tale clima, non sorprende «che, negli ultimi decenni, si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico» (n. 70).

Ciononostante, è forte la convinzione che la componente promettente nelle persone di oggi è più consistente dei limiti che in esse si possa riscontrare; a tal punto che l’incontro con la gente di oggi diventa occasione di arricchimento per gli stessi credenti, poiché essa non è solo bisognosa dell’annuncio cristiano e aperta ad esso, ma portatrice essa stessa di valori che possono incrementare la fede degli stessi credenti che annunciano loro il Vangelo di Cristo. L’altro non è un estraneo né un nemico, ma un fratello che ha qualcosa da dirci, se non da insegnarci, con cui stabilire un rapporto di dialogo e di collaborazione. Diverse sono le ragioni di tale atteggiamento positivo. Innanzitutto

Il sostrato cristiano di alcuni popoli – soprattutto occidentali – è una realtà viva. Qui troviamo, specialmente tra i più bisognosi, una riserva morale che custodisce valori di autentico umanesimo cristiano (n. 68).

          In tal senso trova conferma il carattere popolare del cattolicesimo anche in un Paese come l’Italia. Ma va messa in conto l’evoluzione della religiosità in generale.

Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente (n. 89).

          In particolare i poveri sono portatori di una positività feconda.

Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. (198)

         In ultimo il dialogo ecumenico, in particolare ortodosso (cf. n. 246), quello con l’ebraismo (cf. n. 249) e il dialogo interreligioso (cf. nn. 250-251), permettono di affermare che

Anche noi cristiani possiamo trarre profitto da tale ricchezza consolidata lungo i secoli, che può aiutarci a vivere meglio le nostre peculiari convinzioni (n. 254).

          L’alterità non è per il credente fonte di timore e di minaccia, ma una possibilità di apertura e di arricchimento nella reciprocità.

L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. […] il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro (n. 88).

          Di qui l’atteggiamento corrispondente:

È vero che, nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano (n. 271; cf. anche n. 274).

          Il motivo dell’apertura all’altro ci riporta su un terreno propriamente teologico, poiché consiste nella certezza di fede che il Cristo risorto, con il suo Spirito, è all’opera anche là dove non penseremmo, così che l’annuncio cristiano e la presenza ecclesiale trovano opportunità di attenzione e di accoglienza in ambienti e gruppi apparentemente lontani ed estranei.

Nell’inculturazione, la Chiesa «introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità», perché «i valori e le forme positivi» che ogni cultura propone «arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto» (n. 116).

          La ragione ultima è, allora, che l’annuncio cristiano possiede una forza che può superare ogni contrarietà e penetrare ogni ambiente e situazione.

Da quanto detto seguono due indicazioni che riguardano la correzione di quell’atteggiamento pregiudizialmente negativo di cui si diceva sopra e la natura dell’evangelizzazione e della sua diffusione. La correzione dell’atteggiamento prevenuto negativamente consiste nel superamento della chiusura autoreferenziale che rischia di condurre all’autodissoluzione; essa consiste nell’uscita da se stessi e nell’apertura missionaria. Le difficoltà segnalate nell’ambiente e nell’epoca, spesso nascondono una condizione di debolezza della fede e di scarsa vitalità dell’esperienza ecclesiale. Proprio per vincere tale debolezza e recuperare vitalità la fede cristiana ha bisogno di riscoprire il suo dinamismo missionario. Detto in altri termini, la costitutiva missionarietà della Chiesa non risponde soltanto alla sua natura profonda ma diventa, nel nostro contesto e nella nostra epoca, la forma di vita e di azione di cui la fede cristiana ha bisogno per essere vivificata. Non c’è altro modo – sembra dire il Papa – per ravvivare una fede stanca e scoraggiata se non l’impegno per comunicarla con rinnovato slancio e ardore. Naturalmente

Sebbene questa missione ci richieda un impegno generoso, sarebbe un errore intenderla come un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di tutto sua, al di là di quanto possiamo scoprire e intendere (n. 12).

          Infatti sono proprie della fede cristiana la bellezza, la gioia, la capacità di attrazione, che rendono l’azione evangelizzatrice e missionaria, non un’azione di promozione e di proselitismo, bensì la manifestazione di una forza attrattiva che scaturisce dal cuore stesso della fede testimoniata con la semplice realizzazione di un’autentica, e quindi coerente, esistenza credente.

In ogni caso, tutti siamo chiamati ad offrire agli altri la testimonianza esplicita dell’amore salvifico del Signore, che al di là delle nostre imperfezioni ci offre la sua vicinanza, la sua Parola, la sua forza, e dà senso alla nostra vita. Il tuo cuore sa che la vita non è la stessa senza di Lui, dunque quello che hai scoperto, quello che ti aiuta a vivere e che ti dà speranza, quello è ciò che devi comunicare agli altri. La nostra imperfezione non dev’essere una scusa; al contrario, la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere (n. 121).

La struttura del documento

Al di là della lunghezza e della molteplicità degli argomenti che affronta (basti pensare al tema della predicazione e dell’omelia, oltre che del primo annuncio, nel terzo capitolo, o ai quattro principi esposti nei nn. 221-237 del quarto capitolo), la struttura del documento è abbastanza semplice. Su quattro parti, la prima tratta della necessità di una conversione dell’azione pastorale della Chiesa, la seconda descrive alcuni fenomeni della crisi che il mondo di oggi soffre e delle conseguenze che essa ha sui credenti impegnati nella vita della Chiesa, la terza è dedicata alla presentazione dell’annuncio del Vangelo, la quarta alla dimensione sociale dell’evangelizzazione. Mentre l’introduzione presenta il tema della gioia del Vangelo, la conclusione sviluppa la motivazione dell’evangelizzazione nella presenza e nell’azione dello Spirito.
Riconosciamo facilmente dentro questa struttura espositiva l’impostazione di fondo e le idee portanti che ho già presentato. Una qualche considerazione merita di essere fatta sul capitolo dedicato alla dimensione sociale dell’evangelizzazione. Come altri temi, con cui abbiamo acquistato familiarità nel magistero di papa Francesco, anche quello della povertà ci è ben noto. Esso ha senza dubbio il carattere della novità, anche se non è mai scomparso dall’insegnamento del magistero a partire dal concilio Vaticano II. Negli interventi di questo Papa l’opzione preferenziale per i poveri – secondo una formula non certo di conio recente – non è un tema tra gli altri, ma assume un valore, oserei dire, discriminante rispetto alla vera appartenenza ecclesiale se non alla retta dottrina. Egli scrive:

Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità (n. 177).

[C’è un] indissolubile legame tra l’accoglienza dell’annuncio salvifico e un effettivo amore fraterno […]. Ciò che esprimono questi testi [della Scrittura] è l’assoluta priorità dell’«uscita da sé verso il fratello» come uno dei due comandamenti principali che fondano ogni norma morale e come il segno più chiaro per fare discernimento sul cammino di crescita spirituale in risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio. Per ciò stesso «anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza». (179)

          L’attenzione concreta e operosa verso i poveri fa parte in qualche modo dell’essenza stessa della fede cristiana.

Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia» (n. 198).

          Nell’azione a favore dei poveri si manifesta un segno della presenza del Regno di Dio, poiché «Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna» (n. 182).

Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali (n. 180).

          Non è consentito, allora, relegare la religione nella «segreta intimità delle persone» (n. 183), senza correre il rischio di vanificare l’annuncio del Vangelo (cf. n. 199). A partire dalla radice cristologica – in riferimento a colui che «si fece povero» (2Cor 8,9) per arricchirci con la sua povertà – l’invito del Papa è a non preoccuparsi «solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza» (n. 194).

Indicazioni per la recezione e la traduzione nella vita delle nostre Chiese e nel nostro ministero

Volendo raccogliere alcune considerazioni conclusive, bisogna innanzitutto affermare che questo Papa è un segno per la Chiesa del nostro tempo. Senza scadere nell’adulazione né, all’opposto, lasciarsi andare a una critica prevenuta e ideologica, come in qualche caso pure si verifica, un’attenta considerazione che nasca dalla fede, e da una intelligenza da essa accompagnata, deve condurre al riconoscimento, in alcuni richiami di papa Francesco, di un carattere profetico, di un appello di Dio. Tali sono lo sguardo positivo e carico di speranza sull’umanità di oggi e su questa fase della storia, la gioia del Vangelo come espressione di una fede genuina e come spinta all’espansione missionaria dell’annuncio cristiano per farne sprigionare la forza di attrazione, lo sguardo rivolto in maniera privilegiata ai poveri e ai diseredati per riscattarli dalla loro condizione e porre così un segno della presenza del Regno di Dio.
Si tratta di richiami che colgono nel segno di una situazione della fede piuttosto debole se non in alcuni casi compromessa. E se è possibile mostrare che essi non sono del tutto nuovi, è innegabile che la novità di accenti e di prospettiva ce li fa vedere in una luce di profondo rinnovamento, suscitando, insieme alla speranza, la coscienza di una responsabilità e l’urgenza di un impegno inedito per le nostre abitudini mentali e le relative pratiche pastorali.
Di fatto non è da ora che anche qui in Italia si parla di conversione missionaria della pastorale e di missionarietà (pensiamo al documento del 2004 sulla parrocchia). E tuttavia l’averlo fatto, e ripetutamente, non ha visto cambiamenti significativi nella pratica pastorale delle nostre comunità. Seppure si conoscono risvegli e fermenti, il clima ecclesiale si è fatto sempre più stanco per effetto della fatica, quando si è fatta, spesso ingrata per logoramento e scarsità di risultati. Spesso manca il coraggio e la fiducia nella forza della Parola e della fede, nella forza del Signore. Ci chiediamo sinceramente che cosa potrà determinare una svolta.

La prima indicazione che ci dà l’Esortazione del Papa riguarda il risveglio della fede e la sua qualità ardente e diffusiva. Se manca il fuoco, difficilmente potrà essere acceso in altri ed essere propagato dovunque. E il fuoco sappiamo come trovarlo e come alimentarlo, perché non dobbiamo cercarlo né tantomeno inventarlo; esso è già a nostra disposizione, anzi è in noi, come dono dello Spirito; abbiamo la Parola e la possibilità dell’ascolto, abbiamo la preghiera e i sacramenti, abbiamo con tutto ciò la fede. Commentando sant’Agostino, Benedetto XVI scrive nella Porta fidei (n. 7):

Solo credendo, quindi, la fede cresce e si rafforza; non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, nelle mani di un amore che si sperimenta sempre più grande perché ha la sua origine in Dio.

         Di conseguenza, questo “spirito” devono assumere le nostre comunità, chiamate a unire coltivazione della fede e iniziativa evangelizzatrice e missionaria. Su questo abbiamo bisogno di una verifica attenta.

Come vorrei trovare le parole per incoraggiare una stagione evangelizzatrice più fervorosa, gioiosa, generosa, audace, piena d’amore fino in fondo e di vita contagiosa! Ma so che nessuna motivazione sarà sufficiente se non arde nei cuori il fuoco dello Spirito (n. 261).

          In secondo luogo, dobbiamo imparare ad accogliere e incontrare con un atteggiamento positivo: scrutare dentro il cuore di chi ci accosta il bisogno di Dio, la fatica di portare i drammi della vita, gli effetti di esperienze devastanti e amare che hanno reso duri e spietati, gli accenni di apertura e di disponibilità all’appello di Dio. Uno sguardo nuovo può produrre effetti insperati anche nelle persone più refrattarie. Ma ci vogliono occhi di fede e tanta pazienza.

Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario (n. 35).

In questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto (n. 36).

          Questo chiede evidentemente una rimodulazione dell’impegno pastorale, ancora tutto giocato su una dimensione di attivismo, e meno di contemplazione e di ascolto.

La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. […] La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo (n. 264).

          Infine, dobbiamo elaborare e acquisire la capacità di dialogare. L’ascolto è il segreto dell’annuncio, nel duplice senso dell’ascolto di Dio e dell’ascolto dell’altro. Certo c’è bisogno di un nuovo spirito di iniziativa, che riveda l’ordine delle priorità e dedichi tempo a ciò che è veramente importante (e non solo urgente). Il dramma è che continuiamo a fare pastorale come se avessimo dinanzi una società cristiana, invece siamo in mezzo a comunità umane in cui ci sono ancora molte persone religiose, che si accontentano di appagare il loro bisogno di rassicurazione religiosa, in questo modo assorbendo ogni nostra energia pastorale, ma mettendoci così in balia di un meccanismo che ci logora e rischia di deluderci sempre di più senza riuscire a trovare la forza per pensare cosa e come cambiare e per riuscire a cambiare veramente, anche se a poco a poco. Per questo l’incontro e il dialogo ci permettono di sfuggire ai meccanismi ripetitivi di una pastorale stanziale e di conservazione.

C’è bisogno di un nuovo corso di discernimento spirituale e pastorale. Ma bisogna essere disposti a mettersi in discussione. È anche l’unico modo non solo per dare un futuro alla nostra pastorale e alla nostra fede, ma anche per rimanere vivi in un tempo di asfissia spirituale e culturale.

Il Concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo (n. 26). Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma (n. 30).