Presentazione della Lettera pastorale 2014-2015 (19 settembre 2014, Curia Vescovile)

20-09-2014
Che cosa siamo venuti a fare? Che cosa cerchiamo? Queste domande, che dovremmo imparare a farci più spesso, ci interrogano anche in un momento come questo di corale convocazione ecclesiale. Interrogano me e ciascuno di voi, non perché non conosciamo il motivo del nostro raduno, ma perché abbiamo bisogno di prenderne più lucidamente coscienza e soprattutto di purificare le nostre intenzioni per raggiungere e realizzare il nostro compito essenziale di persone e di credenti.
Vorrei accoratamente invitare me e tutti voi – presbiteri, consacrati, fedeli laici – a dismettere il volto e la veste dell’abitudine, della rassegnazione, del tedio, per rivestirci invece di attenzione, di interesse, di trepidante e gioiosa aspettativa: non di qualcosa di imponderabile che debba accadere, ma di ciò che noi stessi siamo chiamati e abbiamo il potere di mettere in opera.
Dopo mesi di iniziale conoscenza reciproca, ora ci è chiesto di avviare insieme un nuovo anno pastorale. Comincia per noi il tempo ordinario, ma potremmo dire anche: il tempo ordinario comincia di nuovo, ha un nuovo inizio. Sentiamo che ci è concessa una nuova opportunità, un’occasione irripetibile. Questo tempo non tornerà più e abbiamo solo questo tempo per fare dell’anno che ci sta dinanzi una possibilità di vita buona e di grazia feconda.
Presentiamo la prima Lettera pastorale del vescovo e gli Orientamenti per l’anno prossimo. Non è impertinente ricordare che non è prescritto da nessuna parte che un vescovo debba scrivere una lettera pastorale e nemmeno che debba fare un programma. Comprendiamo bene però che non si dà comunione e cammino di Chiesa senza un minimo di visione comune, di comprensione della situazione e di obiettivi da perseguire insieme. L’uso di parole come programma e progetto può indurre in fraintendimenti, con il rischio di considerare la comunità cristiana alla stregua di un’azienda che deve macinare risultati e produrre profitti. Nondimeno il camminare insieme deve avere un orientamento, una direzione. C’è bisogno di fare il punto sulla situazione in cui ci troviamo, senza pretendere una diagnosi esaustiva; c’è bisogno di capire quali sono le debolezze e le difficoltà e di individuare i punti di forza, per determinare che cosa c’è da correggere, che cosa da incoraggiare, quali le mete a cui tendere. Per questo è utile un documento che serva da traccia per il cammino da compiere e per l’orientamento da tenere. Tanto più quando, come in questo caso, il suo contenuto è stato preparato da un confronto prolungato in questi mesi e poi anche, nei suoi tratti principali, condiviso in diverse sedi.
Se proprio dobbiamo dire qualcosa della Lettera e degli Orientamenti, non ci vuole molto a darne un’esposizione sommaria. La Lettera, infatti, dopo un’introduzione che richiama alcuni riferimenti letterari del titolo, presenta una descrizione della situazione con le difficoltà ma anche con le potenzialità che esprime, e soprattutto con le esigenze che manifesta. Nella seconda parte spiega, utilizzando un’ampia citazione di una famosa omelia di papa Paolo VI, che si tratta di ritornare a Cristo come centro dell’esperienza cristiana e della fede e, più specificamente, di rinnovare l’incontro con lui; in tale incontro si racchiude allo stesso tempo la storia della rivelazione e della salvezza e l’esperienza di fede di ogni singolo credente e di ogni comunità cristiana. La terza parte si sofferma sulla natura dell’incontro con Cristo a partire non da elaborazioni teoriche, ma dalla narrazione neotestamentaria; riprende pertanto in modo particolare la testimonianza di san Paolo, per riflettere poi sull’evento dell’incontro ripercorrendo il racconto lucano dei discepoli di Emmaus, in cui ritroviamo le categorie nelle quali esso si compie, ovvero il fratello, la parola, l’eucaristia; infine interpella la responsabilità di chi nella comunità ha il compito di guida e di coloro che collaborano più da vicino, perché si avverta da tutti la necessità dell’incontro personale e comunitario con Cristo, anche al fine di ricondurre a lui molti altri fratelli e sorelle, vicini e lontani. L’ultima parte ha un carattere soprattutto operativo; richiama pertanto gli impegni che scaturiscono negli ambiti indicati dalle tre categorie evangeliche.
Perché la scelta del tema dell’incontro con Gesù?
Sembra un tema scontato, ovvio, risaputo, mentre pone una questione scottante. Scottante perché, contrariamente alle apparenze, oggi è in questione la fede. A qualcuno può sembrare che basterebbe una migliore organizzazione ecclesiastica e una qualche risorsa tecnica aggiornata per far tornare un cristianesimo florido ed efficiente. In realtà i tentativi in tal senso sono stati tanti negli anni del dopo-Concilio, ma la situazione si è andata deteriorando più che migliorare. D’altra parte, per dirla tutta, non è che l’ideale a cui tendere sia un nuovo efficientismo ecclesiastico, se mai c’è stato qualcosa di simile che fosse davvero soddisfacente, ma una Chiesa viva sì, qualunque sia la sua consistenza numerica effettiva. Il Signore ci sta mettendo alla prova con i numeri; ci chiede se crediamo di più in lui o nella forza dell’organizzazione che riusciamo a mettere in piedi. Non si tratta di creare artificiose opposizioni, ma è nel Signore che riposa la forza della vita della Chiesa, non nelle sole risorse umane. Tutta la Scrittura dell’Antico Testamento, in tantissime pagine dei profeti, dei libri storici, dei salmi, ripete come un ritornello che la forza che fa vincere è in Dio e nella fede in lui, poi le circostanze possono essere le più diverse. E anche Gesù non fa altro che ripetere: la tua fede ti ha salvato. Qualunque sia la condizione in cui si trova, il credente salva se stesso e gli altri per la fede che lo anima.
Oggi la fede è minacciata, sia come atteggiamento personale sia come convinzione argomentata e articolata quanto ai contenuti di verità. C’è molta religiosità in giro; ma quanta fede? Due fenomeni devono far riflettere in tal senso. Penso in primo luogo al carattere soggettivistico della coscienza religiosa diffusa. Il pericolo non è rappresentato dalla secolarizzazione, cioè dalla perdita del senso di Dio e della sua presenza nella vita e nella storia, cosa peraltro non trascurabile; il pericolo è rappresentato in misura maggiore dalla tendenza a una selezione arbitraria dei contenuti e della forma del giudizio di coscienza in materia religiosa ed etica. Ognuno, in un certo senso, si forma l’immagine di Dio a suo piacimento. Con ciò evidentemente è anche l’immagine dell’uomo a essere messa in questione. Se la coscienza religiosa assume forma soggettiva arbitraria, anche la coscienza di sé si espone all’arbitrio. L’individuo si fa giudice assoluto di se stesso, arbitro del proprio destino, addirittura ri-creatore della propria natura. I problemi posti dalla biotecnologia o, addirittura, dal cosiddetto post-umano, sono componente costitutiva di un tale processo culturale. Oggi sono entrate in questione la divinità di Dio e l’umanità dell’uomo.
Il secondo fenomeno che è dato rilevare riguarda più da vicino la nostra situazione, per la quale potremmo parlare di un cristianesimo sociologico. Gestiamo la pratica religiosa come se fossimo ancora in tempi di cristianità, cioè come se la società fosse bene o male integralmente cristiana. Naturalmente sono convinto che la persistenza sociale del cristianesimo, per effetto dell’impianto popolare del cattolicesimo italiano e della forza inerziale della tradizione culturale, sia un’opportunità di straordinaria portata, da valorizzare come vantaggio irripetibile per avere spazio e tempo di coltivare la missione cristiana. Ma non ci si può adagiare su questo stato di cose. È in fondo anche in questo senso che va il magistero e il gesto di questo Papa, Francesco, nel senso cioè di cominciare a ragionare e ad attrezzarsi come cristianesimo di minoranza qualitativa, e non di mera e pigra maggioranza sociale. Ci sono segnali che dovrebbero allarmarci in tale prospettiva: un senso di stanchezza nelle nostre comunità, la ripetitività di moduli e pratiche, l’assenza di entusiasmo, la difficoltà, se non l’incapacità, di coinvolgere, di interessare, di motivare e aggregare. Ciò che diamo per posseduto e consolidato, in realtà lo stiamo perdendo, perché appare sempre più parte della nostra memoria remota, non della nostra viva esperienza attuale. Rischiamo di doverci presto accorgere che ci è rimasto ben poco tra le mani.
Che cos’è che possiamo fare in un quadro così desolante? Certo qualcuno potrebbe obiettare che le cose non stanno esattamente così. Da parte mia, in questa sede, non intendo prendermi a cuore oltremisura la difesa di un’analisi. Qualunque sia l’entità della crisi (e a parlare ripetutamente di crisi della fede è stato non ultimo Benedetto XVI) o, comunque, della fatica della fede oggi, ciò che dobbiamo constatare è che non sappiamo come prendere in mano la situazione e, soprattutto, che non riusciamo a vedere le risorse presenti in essa e a farle sprigionare. Proprio qui sta il punto di svolta della fede che ci è chiesta. Finché consideriamo la situazione come dipendente unicamente dalle nostre forze, siamo sulla strada sbagliata, perché continuiamo a coltivare l’immagine del mondo di ieri con l’unico intento di vedere come ricostruirlo. Ma proprio questo è un errore, perché il mondo di ieri è finito; non tutto di ciò che viene da ieri non ha futuro, ma il mondo di ieri così come era tutto intero, quello sì non ha futuro.
In questo senso mi permetto una parentesi. Fin dall’inizio mi sono fatto l’idea che il mondo dei borghi della nostra piana pontina, con tutto ciò che tale mondo significa dentro e fuori degli stessi borghi, è una peculiarità di questo territorio e della nostra diocesi e rappresenta una risorsa originale e straordinaria; ma tale risorsa produrrà tutti i frutti che porta in seno se accetta di trasformarsi; se ci si limita a guardare il passato, con sentimento nostalgico, come un mondo idilliaco, ci si destina a diventare noi stessi reperti del passato, sempre più disarticolati, privi di tessuto connettivo se non nella memoria di chi ancora (e sono sempre di meno) può vantare dei ricordi. E qualcosa di simile vale anche per le comunità di antico radicamento storico. Ma il futuro? C’è un futuro per il meglio che quel mondo ha espresso solo passando per un processo di rinnovamento.
Il rinnovamento di cui parlo non sta nella artificiosa invenzione di un progetto costruito a tavolino. Se è vero che il mondo di ieri, come tale, non può essere più ricostituito, è vero anche che il mondo di domani ancora non lo conosciamo, e se pretendiamo di inventarlo di sana pianta, ci esponiamo al rischio di amare delusioni e di inutili sofferenze. Abbiamo bisogno di riconoscere la figura del mondo futuro dinanzi a noi dentro le risorse del presente; per far questo dobbiamo metterci in gioco, con la nostra libertà e la nostra coscienza, con la nostra inventiva e con il nostro ingegno, con la nostra generosità e il nostro amore. La fede non ci chiede altro. L’incontro con Cristo non è un accadimento privato e intimistico che si gioca tra me e lui soltanto, fuori dalle dinamiche e – perché no? – dai drammi della vita e della storia; è invece la possibilità di vedere e di attuare un’assunzione dell’avventura della vita con la certezza assoluta di un successo definitivo, al di là delle riuscite intermedie e in ogni caso con la possibilità di vivere autenticamente la nostra esistenza, in intensità e secondo verità.
Per questo abbiamo bisogno di ricominciare dall’incontro con Cristo, e più esattamente di ricominciare dall’incontro con lui nell’ascolto. Un tale compito non può apparirci una cosa come un’altra, perché comunque qualcosa bisogna fare; costituisce invece l’unica cosa veramente necessaria e urgente, qui e ora. Vorrei chiedervi se non avvertite anche voi il peso di questa cultura che ci avvolge da ogni parte e ci impregna, contrassegnata da superficialità, vuotaggine, volgarità, ancora di più da assenza di visione, fiacchezza intellettuale e morale, irresolutezza e ripiegamento nel privato e nell’isolamento: una stagione di inesorabile e sconsolante decadenza. Abbiamo bisogno di Cristo perché in lui ritroviamo noi stessi, in lui vero uomo, e grazie a lui, la nostra vera umanità. Non lo cerchiamo per evadere dalla pesantezza di questo tempo, ma per entrare ancora più profondamente in questo tempo, con la verità dell’umano creato e redento che in Cristo recuperiamo perché ci viene restituito secondo il modello originario e in tutta la sua integrità.
Tra le molte risorse che questo tempo indubbiamente conserva, noi ne vediamo una in cui si racchiude il segreto di una reale speranza per il futuro. Tale risorsa sono le nostre comunità nella misura in cui diventano sempre di più tali, luoghi di vita in cui i credenti si riconoscono e vivono da fratelli nella relazione fondante con il Signore Gesù, centro e meta della vita personale e comune. Noi abbiamo bisogno di credere e di aiutarci a credere, coltivando le relazioni ecclesiali come germinazione di un tessuto umano rigenerato, in cui si vive bene insieme, perché ciascuno trova la propria dimensione e nessuno è tagliato fuori dalla comunicazione vitale con il Signore Gesù e con gli altri. E la società tutta, la nostra gente, ha bisogno di comunità cristiane vive e autentiche per ritrovare un senso nuovo di umanità, smarrita dietro i miti dell’arricchimento facile e del consumo illimitato, del divertimento senza freni e dei diritti senza doveri.
Quest’anno ci viene consegnato il compito di dare priorità all’ascolto. Gli Orientamenti pastorali ne parlano innanzitutto accennando all’identità di Gesù come Parola personale di Dio, Verbo incarnato, creatore, rivelatore e salvatore. Alla luce dell’incontro e del rapporto con la Parola che è Gesù, si coglie la trasformazione che si produce in ogni credente, che riscopre la propria identità, il proprio rapporto con Dio e quello con gli altri. Attraverso il confronto con tre pagine evangeliche, poi, gli Orientamenti mettono in evidenza alcune esigenze fondamentali per imparare ad ascoltare: non cadere in una lettura selettiva della realtà e dei segni di cui è disseminata ma coltivare una visione d’insieme del disegno di Dio, imparare ad ascoltare se stessi per ascoltare Dio e gli altri, individuare gli ostacoli che disturbano o impediscono un ascolto reale e produttivo. Così sperimenteremo che la nostra umanità riprende un sorprendente vigore e la nostra fede una gioiosa rinnovata freschezza.
Chiudo invitando a privilegiare quest’anno l’ascolto della Parola di Dio e tutte le sue implicazioni come dimensione dell’incontro personale e comunitario con il Signore Gesù. Non si tratta di moltiplicare le cose da fare, ma di fare tutto in modo tale che l’ascolto maturi come atteggiamento serio, profondo e costante di tutti e di ciascuno. Imparare ad ascoltare è un’impresa che non finisce mai. Se soltanto cominciassimo ad aver cura del tempo della nostra preghiera, della lettura e della conoscenza della Scrittura, della sua proclamazione nella liturgia, della sua presenza nella nostra catechesi, nella predicazione e in ogni proposta formativa, del confronto con essa nel cercare di capire e valutare il nostro tempo, ma anche cura dell’ascolto e dell’accoglienza gli uni degli altri, soprattutto dei più fragili e di chi attraversa difficoltà ed è provato dalla vita; non ultimo, se cominciassimo ad aver cura di momenti e tempi di silenzio e di meditazione! Un suggerimento pratico voglio darlo: ciascuno di noi e ciascuna comunità o gruppo, prenda l’impegno di adottare un’attività o un’iniziativa per sé: sarà la lettura di un libro della Scrittura, la lectio divina sul Vangelo festivo, un corso biblico, la partecipazione a una delle iniziative che la diocesi promuove, insomma qualcosa di specifico e concreto che segni un impegno reale, un effettivo esporsi alla provocazione che oggi il Signore ci fa giungere.
È bello cominciare un nuovo anno di vita ecclesiale; sono sicuro che la gioia è condivisa da voi tutti. Perché sia bello, quest’anno ha bisogno, però, dell’adesione convinta e cordiale di ciascuno di noi. Non manchi la risposta generosa. Non sono tanto io a chiederlo, poiché se lo faccio è solo perché sono sicuro che è il Signore stesso che invita e spinge a osare, a intraprendere, ad assaporare la gioia incontenibile della sua presenza in mezzo a noi. Con questa certezza di fede riprendiamo con slancio nuovo e passo rinfrancato il cammino.