Omellia per il funerale del diacono Giulio Torella (10/04/2017 – Latina)

11-04-2017

OMELIA

Funerale del diacono Giulio Torella

Cattedrale di S. Marco, lunedì santo, 10 aprile 2017

+ Mariano Crociata

Per prima cosa sento di dare voce allo sgomento che tutti abbiamo provato alla notizia della morte del dottor Giulio Torella. La esprimiamo con la spontaneità del sentimento umano che suscita un evento improvviso e traumatico, quale è stata la perdita di una persona cara, amica, stimata. Siamo vicini con l’affetto e la preghiera alla moglie e ai figli; e siamo compresi, come comunità ecclesiale, della gravità della perdita di un fratello diacono, che ha svolto il ministero per sette anni, dopo l’ordinazione avvenuta il 9 ottobre 2010. Sposo e padre, medico, diacono: sono i tratti di una figura che ha amalgamato questi aspetti della sua personalità e della sua vita con un senso profondo di appartenenza ecclesiale coltivato in modo particolare nel Cammino neocatecumenale, oltre che nel ministero ordinato.

Insieme allo sgomento un più intimo sentire è sorto in noi e ci ha pervaso: il senso di fede – e di fede nel Risorto – con cui tutti noi, insieme a Giulio, abbiamo imparato e cerchiamo sempre di guardare la vita, con le sue vicissitudini e con la sua attesa e temuta conclusione terrena. Il senso di fede è reso ancora più vivido dal tempo in cui si è collocata la fine terrena del nostro diacono, e cioè alla vigilia della santa settimana. Il mistero pasquale rischiara l’oscurità della nostra esistenza temporale e promette luce piena nella comunione eterna alla risurrezione e alla vita di Dio. Questa fede professiamo con la liturgia di questo giorno santo.

La Scrittura oggi ci parla di Gesù e, attraverso di lui, anche di noi e a noi. In particolare, nel canto del servo di Isaia intravediamo i tratti di un Messia formato, preso per mano, chiamato e stabilito per compiere, con il sostegno divino, un’opera di liberazione dalla cecità e dalla prigionia che tiene incatenati gli esuli lontani dalla terra e dal suo Dio. Gesù, il Messia, compirà effettivamente la liberazione profetizzata e lo farà per mezzo della sua passione e della sua morte. Anche noi abbiamo cominciato a vedere di nuovo grazie ai nuovi occhi che egli ci ha donato e alla forza con la quale ha rotto le catene delle nostre interiori prigionie. Il nostro fratello Giulio con la sua vita e il suo ministero è stato, anch’egli, specialmente a servizio di quest’opera messianica di liberazione dalla cecità e dalla reclusione che tiene schiavi di se stessi e di un mondo senza diritto e senza giustizia.

Il Vangelo rimanda in più modi alla morte di Gesù. A confronto con i capi dei sacerdoti che tramano per trovare il modo di catturarlo e condannarlo, Gesù mostra di avere sommamente chiaro ciò che lo aspetta e decide lui di abbracciarlo con determinazione, senza esitazioni e con una sovrana serenità. In questo contesto un motivo in particolare risalta, che possiamo definire con la parola spreco. Sì, c’è uno spreco sconcertante di profumo estremamente prezioso versato sui piedi di Gesù (e i piedi dei discepoli Gesù laverà a sua volta nell’ultima cena). Perché questo spreco, economicamente insensato, come fa osservare interessatamente Giuda? È uno spreco che corrisponde o, meglio, cerca di rispondere a un altro spreco. Gesù stesso farà riferimento alla sua sepoltura, perché egli sa a che cosa va incontro. Che cos’è la sua morte se non una forma di spreco? Che bisogno c’è per Dio di far morire il proprio figlio? Non avrebbe egli potuto salvare con una sola parola della sua potenza? Eppure ha voluto dare infinitamente di più di quanto secondo una umana ragionevolezza sarebbe richiesto. C’è un amore divino sconfinato e incommensurabile che sta dentro il patire e il morire di Gesù. Come rendercene conto? Forse non ci riusciamo proprio. L’eccesso di profumo versato da Maria, la sorella di Lazzaro, è un segno dell’amore sconsiderato e senza limiti con cui può essere – peraltro mai adeguatamente – ricambiato l’amore di Gesù e di Dio per noi.

È bello poi pensare al profumo, che si spande per tutta la casa e ne impregna tutta l’aria e le persone che vi si trovano, come all’amore che si effonde nel cuore e nella comunità dei credenti. Il vaso è il corpo di Gesù che si frange all’atto del morire e subito, per effetto della morte, sprigiona un profumo incontenibile d’amore di Spirito Santo. Lo stesso amore noi cerchiamo, per esserne impregnati e ricambiare quello infinito che il Signore ha riversato su di noi. È lo stesso amore di cui ci parla san Paolo ai Romani e di cui afferma che esso è così grande e immenso che niente e nessuno potrà mai separarci da esso. Un vero credente vive di questa esperienza e della medesima certezza.

Noi siamo convinti che questa certezza, e anzi la sua esperienza, appartiene al nostro fratello Giulio, non solo perché egli l’ha sempre coltivata e testimoniata, ma perché, oggi in modo particolare, ci invita a farla nostra senza misura. Un invito che vuole sia accolto da tutti noi e in modo speciale dai suoi familiari, il cui legame non è perduto e nemmeno attenuato, ma se possibile rafforzato dall’essere stato egli assunto pienamente nell’amore di Dio, che ora lo pervade senza ostacoli né riserve, in attesa che ciò si compia anche per tutti noi. Leggiamo la sua prematura scomparsa come parte di quell’amore, incomprensibile perché incommensurabile, di Dio dal quale egli ora sperimenta di essere amato senza ombre e senza riserve, e che ha sempre amato e servito nella sua vita in mezzo a noi. Lo accompagniamo con la nostra preghiera, fiduciosi che anch’egli prega per i suoi e per noi tutti sua Chiesa.

Lasciamoci ricondurre, da questa celebrazione, a ciò che conta veramente nella nostra vita, per non temere di sprecarla nel desiderio di corrispondere, anche solo in minima parte, allo spreco di amore che Dio ha riversato su di noi.