Omelia Santa Messa nella solennità del Corpus Domini (29/05/2016 – Cattedrale di Latina)

29-05-2016

OMELIA

SS. Corpo e Sangue del Signore

Latina, Cattedrale S. Marco, 29 maggio 2016

+ Mariano Crociata

 

La solennità del Corpus Domini è una delle poche occasioni – probabilmente la principale – in cui ci troviamo radunati qui in cattedrale dalle parrocchie della città di Latina. Attorno all’Eucaristia sentiamo di essere uniti, anzi di essere una cosa sola nel Signore Gesù. Oggi comprendiamo meglio che ogni giorno, dovunque celebriamo, formiamo una unità disseminata nella città, siamo un’unica grande comunità.

Mi piace tornare a porre una domanda: che cosa significa per la nostra città la presenza di una comunità cristiana cattolica, che ha nell’Eucaristia il proprio centro visibile quotidianamente riproposto? Il nostro essere comunità trasversale a tutta la città riesce a conferire ad essa una qualche unità? Quale forma di città riesce a prefigurare la comunità ecclesiale? È frequente il ritornello che questa è una città senza storia e senza identità. È vero. Ma ci sono molte cose che abbiamo in comune e che anche condividiamo profondamente. Una di questa è certamente la fede cristiana, e quindi l’appartenenza ecclesiale e la celebrazione eucaristica. Ma con quali effetti?

La festa di oggi invita a riflettere sul nostro modo di celebrare e di vivere l’Eucaristia. Lo sappiamo: la Messa è la cosa più importante e la celebrazione principale e più frequente nelle nostre chiese, e tuttavia resta il dubbio che poi tutta questa dichiarata importanza non abbia ripercussioni proporzionate nei credenti e nelle comunità. Spesso le nostre Messe sono vissute come riti ripetitivi più che come eventi spirituali e comunitari che toccano le persone e incidono sulla vita. Tutto dipende dalla fede, dalla qualità della celebrazione, dalla intensità di partecipazione interiore, in altre parole dall’ascolto di ciò che avviene nella celebrazione.

La nostra vita eucaristica ha bisogno di plasmare più profondamente la nostra fede personale, la nostra esperienza credente di singoli e di comunità: innanzitutto perché il Signore risorto presente nell’Eucaristia ha il potere di farlo e si è dato in cibo proprio per poterlo fare. Ma se le celebrazioni non creano unità nelle nostre persone, nei gruppi e nelle comunità, come potrebbero creare unità nella città o almeno incidere nella sua vita? È su questo che la festa di oggi interroga la comunità ecclesiale cittadina.

Al primo posto sta l’annuncio che ogni celebrazione offre all’ascolto della fede: Gesù è veramente il centro di tutto, colui che si è offerto alla morte ed è risorto e vive con noi e per noi, e che noi realmente incontriamo, adoriamo e, soprattutto, mangiamo nell’Eucaristia. Ogni volta che riceviamo la comunione si rinnova in noi e per noi la sua morte e risurrezione; noi siamo posti dentro la morte e la risurrezione di Gesù, partecipiamo di essa, moriamo e risorgiamo in qualche maniera anche noi. Questa fede dobbiamo ravvivare e con essa accrescere la qualità della nostra partecipazione.

Non possiamo ignorare che non mancano dei segni e dei frutti nascosti, in tante persone che non si fanno notare e non fanno rumore, ma intanto portano avanti con i fatti il cammino della fede e della Chiesa, a volte anche a nome e per conto di quelli che più invece si mettono in mostra, ma in verità sono (o, forse dobbiamo dire, siamo) come l’albero di fichi che Gesù maledice perché pieno di foglie ma privo di frutti. È a questo che richiama san Paolo ripercorrendo il racconto della istituzione dell’Eucaristia: Gesù ha consegnato se stesso, nell’imminenza della sua morte, nel pane e nel vino, per rimanere sempre a disposizione dei suoi discepoli ancora increduli e frastornati, dandosi comunque a loro come cibo necessario per la vita.

Il racconto della cosiddetta moltiplicazione dei pani può indirizzare a una comprensione più chiara della nostra condizione spirituale e morale. Tutto comincia con l’esperienza della fame e della mancanza di cibo. Segue il senso di impotenza di fronte a un fabbisogno troppo grande rispetto alla irrisorietà delle risorse disponibili. Infine, su iniziativa di Gesù, il mettersi in moto della collaborazione e della condivisione che suscita una risposta sorprendente al bisogno della folla. Gesù mette in moto i cuori, le persone, le relazioni; rompe meccanismi fatalistici tutti giocati sul calcolo, sulla paura, sul sospetto, sul senso di impotenza che facilmente prende e paralizza quando i problemi sono grandi e ognuno è tentato di puntare sulla difesa del proprio piccolo interesse.

L’Eucaristia è l’esempio, l’invito, soprattutto il dono e la presenza che il Signore fa di se stesso per superare schemi e pregiudizi che ci tengono prigionieri delle nostre chiusure e delle nostre egoistiche abitudini. Ma l’Eucaristia deve entrare nella vita reale; deve finire di essere solo rito, per qualcuno addirittura quasi magico o, all’opposto, innocuo, per diventare un fermento che trasforma la coscienza, le relazioni e le situazioni.

E il primo banco di prova è la nostra fraternità. Se nella comunione tutti riceviamo in cibo lo stesso Signore Gesù morto e risorto, allora vuol dire che mangiandolo noi siamo trasformati in lui, veniamo uniti a lui e quindi anche tra di noi. Per questo in lui siamo resi fratelli. Non dovrebbe questo mostrarsi nel nostro modo di vivere e nelle nostre relazioni? Perché questo spesso non avviene e non si vede?

Ritorna così la questione posta all’inizio: l’Eucaristia che celebriamo non ha proprio nulla a che fare con la fase di cambiamento che la città sta attraversando? E se sì, quale indirizzo suggerisce, quale direzione invita a prendere? Il problema più grande non è se siamo o no minoranza. Il problema è perché la maggioranza che eventualmente ancora siamo non riesce ad esprimere nemmeno una piccola minoranza capace di diventare quell’anima della società e del mondo di cui parla la Lettera a Diogneto: un fermento nella città dotato della volontà e della forza di contribuire a darle un volto più umano e più giusto.