Omelia per la celebrazione 50° di sacerdozio di mons. Mario Sbarigia (29/06/2016, Latina)

30-06-2016

Solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo

(At 12,1-11; 2Tim 4,6-8. 17-18; Mt 16.13-19)

Cinquantesimo anniversario di ordinazione di Mons. Mario Sbarigia

Latina, Parrocchia S. Luca, 29 giugno 2016

+ Mariano Crociata

 

Caro don Mario,

con gioia e gratitudine ci ritroviamo stasera attorno a lei, in questa festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, per celebrare la fausta ricorrenza del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione presbiterale. Abbiamo tutti bisogno di trovare occasioni per dirci l’un l’altro quanto sia preziosa e apprezzata la persona di ciascuno di noi. Noi siamo contenti di avere oggi la possibilità di esprimere a lei la nostra riconoscenza e il nostro affetto. Prima delle mie parole, lo dice la presenza così ricca e variegata di presbiteri e fedeli da tutte le comunità, del fraterno amico don Felice che proprio oggi ha ricevuto dal Papa il pallio per il suo ministero episcopale di metropolita a Benevento, delle autorità civili che hanno voluto unirsi a questo momento di festa.

Anche quella dei cinquant’anni è una tappa che segna un passaggio, e tuttavia prende il significato di qualcosa di compiuto, di un’opera ampiamente realizzata, dalla fisionomia completamente disegnata. Con questo senso di compimento ci uniamo, cari fratelli e sorelle, alla preghiera che don Mario leva al Signore in questo giorno per ringraziarlo dei doni che gli ha concesso e che, attraverso di lui, ha elargito a tutti noi e alla nostra Chiesa. Chiunque di noi faccia un bilancio della propria vita, sa, mettendosi dinanzi a Dio, di dovere soprattutto ringraziare. Noi siamo qui a sostenere questa sua preghiera. E, senza indulgere a elogi fuori luogo, sentiamo di dovere far cenno al bene che Dio ha compiuto in lui e alle grazie che gli ha concesso; ometterlo sarebbe mancare nei confronti dei doni di Dio, poiché è vero che noi, nelle nostre liturgie, non celebriamo mai noi stessi ma solo Dio e la sua bontà infinita; ma è vero pure che fa parte di questo stile celebrativo riconoscere i suoi doni. E tra i doni che un sacerdote fa e riceve sono sempre in proporzione largamente maggiore quelli di cui non c’è traccia visibile, perché percorrono le vie misteriose del cuore e della coscienza, dove la semina della parola, dell’ascolto, del consiglio, del dialogo e della prossimità, della grazia sacramentale più ancora, si disperde in mille rivoli portando i frutti di una fecondità di cui solo Dio conosce la portata e l’efficacia. Noi possiamo cogliere i segni di tutto ciò in un ministero che, per don Mario, ha avuto il carattere di un ininterrotto servizio parrocchiale, a S. Maria Goretti, a S. Benedetto, Borgo Piave, e qui a S. Luca; decenni di ministero lungo i quali caratterizzante, insieme a quello parrocchiale, è stato il lavoro nella Caritas, quello per i migranti e poi quello di vicario generale. Personalmente sono grato di averlo trovato in questo compito di primo collaboratore del vescovo e di averlo potuto confermare, in un ruolo decisivo non solo per la responsabilità che in sé comporta ma per il clima e lo stile di relazione che consente di stabilire con tutta la diocesi. Credo di raccogliere un sentire condiviso se esprimo come particolarmente prezioso anche per il mio ministero il suo tratto pacato, il giudizio sereno, la passione per il bene della Chiesa, la delicatezza nei confronti delle persone e la loro comprensione piena di attenzione e di rispetto, la sensibilità acuta verso il disagio, il buon umore e uno sguardo positivo tesi a scacciare il facile pessimismo, e poi quella che chiamerei la percezione di trovarsi di fronte a una persona pacificata, riconciliata. Di tutto questo siamo grati al Signore, al quale chiediamo di conservarcelo ancora a lungo, come una pianta solida e vitale da cui attendersi per nuove e numerose stagioni buoni frutti.

Una delle caratteristiche non frequentemente riscontrate nelle persone è quella di non nutrire ambizioni per sé ma di investirle tutte nella missione affidata. L’ideale per un prete dovrebbe essere, allora, quello di sentire come ambizione personale la riuscita della propria missione pastorale e quindi il bene dei fedeli, della propria comunità e della Chiesa intera. Ognuno di noi deve confrontarsi con questo ideale e chiunque può riconoscere in coscienza quando e in chi tale ideale è stato e viene effettivamente cercato e raggiunto. Di sicuro c’è che esso è stato lo stile e l’insegnamento degli apostoli Pietro e Paolo. Raccoglierlo ed emularlo in questa celebrazione anniversaria mi pare singolarmente appropriato.

Ciò che essi ci insegnano è che ognuno, questa dedizione appassionata, è chiamato a esprimerla secondo il genio della sua personalità, più esattamente secondo la chiamata e i carismi ricevuti da Dio. Non finisce di colpire la sapienza con cui la Chiesa ha deciso, dai tempi più remoti, di unire in un’unica celebrazione i due apostoli della festa di oggi. Perfino il ministero di Pietro, che costituisce la pietra su cui è stata posta la Chiesa, basta da solo a dare stabilità ad essa, perché anch’egli ha bisogno di Paolo, dell’uomo che va oltre i confini, che porta Cristo ai lontani, che pone i germi della comunione nella fede tra genti e territori che non sembrerebbero per nulla idonei a riceverli. In loro, dunque, troviamo come la personificazione di due esigenze inseparabili, coltivare la fede della comunità e portare il cuore e i passi fino ai territori più remoti e sconosciuti per farvi giungere il Vangelo.

Una cosa però accomuna e assimila Pietro e Paolo: la centralità di Cristo. Egli è tutto per ciascuno di loro. Conoscerlo, amarlo, seguirlo è il pensiero assorbente delle loro menti e dei loro cuori. Ne fa esperienza Pietro trovandosi liberato dal carcere in circostanze inspiegabili; ne ha fatto esperienza Paolo lungo tutto il corso della sua vita, così che quando sente approssimarsi la fine può dire: «il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza». Per entrambi, la professione di fede che il Vangelo ci riporta mettendola sulle labbra di Pietro, non è una verità astratta, una dottrina oggetto di mera conoscenza intellettuale, è invece espressione di una relazione totalizzante, di una presenza personale, quella del Figlio di Dio, Gesù, che assorbe e unifica la loro persona e la loro intera esistenza.

Da questo viene spontaneo porgere a don Mario, e insieme a lui a tutti noi, l’augurio di saper riconoscere, sperimentare e testimoniare sempre di più che Cristo è il centro dell’esistenza personale e della vicenda umana, il senso del cosmo e della storia.