Omelia per il funerale della madre di don Pasquale Tamborrino (17/07/2020 – Chiesa S. M. Goretti, Latina)

17-07-2020

OMELIA

Funerali della mamma di Don Pasquale Tamborrino

Latina, parrocchia S. Maria Goretti, 17 luglio 2020

+ Mariano Crociata

A contatto con la morte la vita appare nella sua bellezza e nella sua tragicità. Ogni vittoria della vita – sulle malattie, sugli imprevisti, sulle sconfitte e su ogni genere di pericolo mortale – ne riafferma la forza e l’intimo valore, ma nello stesso tempo ne rivela l’inesorabile precarietà. Siamo sempre sul confine, anche quando sembriamo o ci sentiamo invincibili. Precarietà significa non avere stabilità, sicurezza; significa possibilità che la costruzione crolli per qualunque prevedibile o improbabile motivo. C’è però nella radice latina di questa parola un significato che ne dischiude più profondamente il senso. Precor in latino significa pregare, supplicare, invocare, domandare e chiedere pregando; e precarius si dice di qualcosa ottenuto con preghiere, che si concede per grazia, per favore e compiacenza. Accogliendo questo significato, la condizione umana ci appare come qualcosa che sussiste e sta in piedi per pura grazia e benevolenza, un dono mantenuto in vita in forza di una implorazione costante, di una preghiera incessante, come del resto ci invita a fare Gesù («sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai», Lc 18,1) e, a sua volta, san Paolo («pregate ininterrottamente», 1Tess 5,17).

Sono pensieri che sorgono spontanei di fronte alla figura di Mariangela Saltarelli, donna di fede, praticante assidua, di rosario quotidiano, fino agli ultimi giorni in ospedale, dove delicatamente portava le compagne di sofferenza a unirsi alla recita comune. Questa nota caratteristica conferisce un alone evangelico alla sua esistenza nascosta e ordinaria di sposa e di madre, completando del resto un percorso di vita lungo il quale aveva coltivato il senso cristiano ricevuto in famiglia e poi nella partecipazione attiva, da giovane, all’Azione Cattolica nella natia Castelforte. L’accettazione della malattia con pazienza e spirito di sopportazione coronavano un percorso coerente di fede che ha unificato la sua intera esistenza.

Quanto, ancora una volta, prima Gesù e poi Paolo chiedono ai discepoli, non è molto dissimile da un tale percorso di vita. Prima di metterci dinanzi agli occhi le grandi figure di santi eroici nella loro virtù e nel loro amore a Cristo, dobbiamo imparare a saper guardare il quadro semplice di tante esistenze, definite ordinarie ma realmente consumate dal dono di sé nella laboriosità, nelle fatiche e nella gioia quotidiana della casa e della famiglia. Il dono esemplare e supremo della vita è quello di Gesù, che abbraccia la croce di fronte alla manifesta volontà del Padre come adesione di amore a Lui e al suo disegno di salvezza; ed è quello dei suoi discepoli che in ogni epoca hanno onorato con il martirio la perfetta adesione di fede a Cristo. Gesù è il chicco di grano che muore e porta molto frutto, e con lui tanti suoi discepoli che lo hanno imitato con il sacrificio della vita.

Ma questo non è l’unico modo di lasciarsi macerare dal terreno; ogni condizione di vita assunta nella fede e portata avanti nella perseveranza della adesione del cuore e della preghiera, tanto più quando il cammino è condito di malattia e di dolore, è un chicco evangelico caduto in terra che lentamente muore, per rifiorire e portare molto frutto. Noi siamo convinti che tale è stata la nostra sorella Mariangela, un dono di Dio alla terra dell’umanità per portare in essa il frutto della fede e della preghiera. Per questo valgono per lei anche le parole di san Paolo: «se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore». Chi impara a vivere per il Signore, nella fede, nella preghiera, nell’amore, impara anche a morire per lui, cioè a offrire tutta la sua vita, quando arriva il momento della chiamata, per lui. E morire per il Signore non è molto diverso dal vivere ogni momento per lui, perché quando si muore nel Signore, si entra, nello stesso attimo, nella sua vita non più mortale ma gloriosa.

Noi lo crediamo convintamente e profondamente, per lei, che presentiamo alla misericordia di Dio, e per noi ancora pellegrini, ma che in tale maniera vogliamo pure vivere e morire.