Omelia Pentecoste-Ordinazione episcopale mons. Felice Accrocca (15/05/2016 – Cattedrale San Marco, Latina)

15-05-2016

OMELIA

Pentecoste

Ordinazione episcopale di Mons. Felice Accrocca

Latina, Parrocchia S. Cuore, 15 maggio 2016

+ Mariano Crociata

 

Caro don Felice,

una delle prime esperienze di un vescovo è quella di accorgersi che tutti, nella sua diocesi e anche oltre, guardano a lui; una presa di coscienza che subentra gradualmente scaturisce, invece, dal rendersi conto che una Chiesa intera lo sostiene con una preghiera incessante. A partire da adesso, non ci sarà momento, nello scorrere del tempo, in cui non ci sia qualcuno che non rivolga a Dio il suo pensiero orante, specialmente nella liturgia, e non invochi l’aiuto di Dio su di te. È un fatto che dà a pensare e chiede di essere integrato nella esperienza personale come un appello di Dio alla responsabilità nella donazione senza riserve del tuo tempo e della tua attenzione.

È, questo, uno dei segni della chiamata di Dio, della natura della Chiesa, della trasformazione che si compie nella tua persona ad opera del sacramento. Ciò che avviene è paradossale. Nell’esperienza comune un uomo diventa padre quando nasce un figlio. Qui, un popolo di figli esiste già, figli di Dio generati dalla Chiesa e alla Chiesa; colui che nasce è il padre. I fedeli della Chiesa sorella di Benevento, ora, ricevono te, finora fratello vissuto per lunghi anni nel presbiterato in mezzo a noi, come loro pastore creato dalla grazia del sacramento.

È una misteriosa e straordinaria mutazione sacramentale, questa, che si innesta nella prima e fondamentale, quella battesimale, senza per questo vederne sminuita la portata nell’economia della grazia e della salvezza. L’odierna festa di Pentecoste fa risaltare con rara immediatezza il senso intimo dell’ordinazione episcopale, vero e proprio evento dello Spirito che plasma il chiamato a immagine del buon pastore affinché ne diventi segno e strumento in mezzo al suo popolo.

La liturgia della Parola suggerisce che quanto lo Spirito suscita e opera sempre e in tutti, in te, caro don Felice, oggi lo compie in maniera commisurata all’alto ministero che ti viene conferito. Il prodigio delle lingue, grazie al quale tutti comprendono l’annuncio della risurrezione, accompagna il ministero degli apostoli e quello dei loro successori facendone una sorgente viva di comunicazione e di comunione (cf. At 2,1-11). La lotta contro la carne, cioè contro l’istinto dell’autoconservazione egoistica e contro la tentazione di ripiegarsi su di sé, nel pastore si traduce in donazione della propria vita a favore del gregge sull’esempio di Cristo (cf. Rm 8,8-17). L’amore vissuto nella fedele osservanza della parola di Gesù, insegnata – cioè impressa con sigillo indelebile dal fuoco dello Spirito – e ricordata – cioè continuamente ricondotta al cuore, alla sorgente interiore del credente dall’iniziativa dello stesso Spirito –, in modo particolare nel vescovo non conosce altra misura se non quella del sacrificio di Cristo in croce che lo spinge a consumarsi interamente per il popolo dei credenti (cf. Gv 14,15-16.23-26).

A questa donazione ti invitano e ti legano le domande che adesso ti saranno rivolte e alle quali potrai rispondere con la vita grazie all’intercessione dei santi, alla imposizione delle mani, alla preghiera di ordinazione, all’unzione del sacro crisma che ti configureranno pienamente a Cristo buon pastore. Fedeltà e perseveranza fino alla fine, predicazione e custodia del tesoro della fede, unità e comunione nel collegio dei vescovi e con il successore di Pietro, il papa Francesco, cura del popolo credente e soprattutto dei poveri e dei bisognosi, ricerca di chi è lontano, preghiera per tutti nell’esercizio del sommo sacerdozio: ecco gli impegni di un pastore buono.

L’attenzione del popolo fedele e la considerazione in cui è tenuto il ministero episcopale non devono far perdere di vista che l’unico e supremo pastore è sempre Cristo Signore. Commentando il Vangelo di Giovanni, S. Agostino dice che «sappiamo chi è il buon pastore, come i pastori buoni sono sue membra e perciò il pastore è uno»; essi possono passare attraverso la porta, che è lo stesso Cristo, per entrare e stare con lui, e per uscire a portare la sua vita e la sua parola, sostenuti dal guardiano che è lo Spirito Santo. In altre parole, la vita e il ministero del vescovo sono strumento di Cristo per l’azione del suo Santo Spirito; perciò il Cristo e lo Spirito sono i protagonisti del suo servizio, il reale soggetto efficace di ogni azione pastorale. Un senso di umiltà e di timore, misto a gratitudine e gioia, pervade l’animo credente del vescovo, memore di essere lui stesso innanzitutto un salvato, al pari del popolo affidato, che da Cristo è stato redento e a lui appartiene. Ce lo ricordano le parole di Paolo nel libro degli Atti: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (20,28).

La propria santificazione costituisce il primo atto di governo di un buon vescovo. Una santificazione mai ridotta a occupazione privata, bensì intrecciata, come un tutt’uno, con il ministero. Scrive san Gregorio di Nazianzo: «Per chi guida è colpa non essere il migliore. Per procedere senza soste verso la perfezione egli deve precedere gli altri con l’eccellenza della propria virtù» (Apologia della propria fuga, 15). Tale perfezione comincia con l’amore personale esclusivo per il Signore, coltivato in un dialogo incessante con lui, sull’esempio di quello che Gesù intrattiene con Pietro, sul finire del Vangelo di Giovanni, chiedendogli per tre volte di amarlo più degli altri (cf. 21,15-19). L’esclusività dell’amore per il Signore si trasforma in esclusività dell’amore per il gregge. San Francesco di Sales ha una espressione fulminante che mi ha raggiunto all’inizio del mio ministero e volentieri ripropongo: «Tento di rinnovare la mia vita; domani si compie il sesto anno da quando Dio mi ha strappato a me stesso per darmi interamente al suo gregge». Sì, siamo stati strappati a noi stessi per donarci interamente.

C’è un aspetto del ministero episcopale che è sempre molto difficile ma non per questo meno necessario. Qualcuno potrebbe ritenere che esso consista nell’esercizio dell’autorità di governo. E non sarebbe affatto sbagliato pensarlo se ancora san Gregorio di Nazianzo può dire: «È difficile all’uomo sapere obbedire e anche più difficile è saper comandare. Specialmente nel nostro caso, trattandosi di autorità che viene da Dio e a Dio conduce» (Apologia della propria fuga 10). Egli stesso però si riporta all’insegnamento della prima lettera di Pietro, là dove questi invita a «farsi modelli del gregge» (5,2). L’aspetto più difficile è invece – ritengo – la capacità di vedere. Intendo questa capacità connessa strettamente all’ascolto di Dio e della sua Parola, e precisamente nel senso del discernimento che ne scaturisce e lo completa. L’ascolto di Dio da parte del pastore è tale quando diventa luce per lui e per il suo gregge. Il popolo fedele ha bisogno di luce; ha bisogno di chi veda la luce e gli indichi dove trovarla; ha bisogno di essere indirizzato e incoraggiato, non da vane parole consolatorie e rassicuranti, ma dalla certezza partecipata di essere sul giusto cammino e di tendere alla meta promessa. Ci vuole l’esperienza che si sta camminando e la percezione di procedere nella giusta direzione. Perché questo si verifichi, il pastore deve riuscire a vedere, deve avere una visione. La nostra visione è il Vangelo e la sua accoglienza condivisa nella comunione del collegio episcopale e di tutta la comunità ecclesiale. Essa ha bisogno, in ultimo, di assumere le fattezze di quella comunità incarnata in precise coordinate di tempo e di luogo, per diventare soggetto di fede e di storia là dove è stata chiamata a vivere. Una espressione singolare di tale capacità di visione sta nel saper individuare, promuovere e raccordare i non pochi fermenti di bene, spesso nascosti, che lo Spirito ha suscitato e stanno crescendo nel campo della Chiesa e anche nel deserto del mondo.

Tutto questo chiediamo per te, oltre che per noi, caro don Felice, affidando all’unico pastore il nostro ministero e la nostra vita. Lo voglio esprimere facendo mia la preghiera di S. Ambrogio: «Vieni, Signore Gesù, lascia le novantanove e vieni a cercare questa che si è perduta lungo la strada (Lc 15,3). Vieni non con il bastone ma con la dolcezza del tuo Spirito. Cercami, trovami, accoglimi, portami. Tu trovi chi cerchi, tu accogli chi trovi, tu prendi sulle spalle chi accogli (Lc 15,4). Vieni, Signore Gesù, perché pur se mi sono smarrito tuttavia non ho dimenticato i tuoi comandamenti. Vieni perché tu solo puoi richiamare la pecora che devia. Non mandare servi o mercenari, vieni proprio tu» (Commento al salmo 118, 22,28-30).