Omelia ordinazione sacerdotale don Leonardo Chiappini (28/06/2019 – Cattedrale di San Marco, Latina)

28-06-2019

OMELIA

Cattedrale di S. Marco, 28 giugno 2019, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù

Ordinazione presbiterale di don Leonardo Chiappini

+ Mariano Crociata

La nostra Chiesa oggi è in festa per il dono di un nuovo presbitero nella persona di don Leonardo Chiappini. La solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù viene a qualificare la nostra celebrazione con la palpabile manifestazione della guida che Dio esercita in Gesù pastore attraverso il sacramento dell’ordine. Siamo tutti chiamati, a partire da don Leonardo, a ravvivare i nostri sentimenti di gratitudine per quanto oggi ci è dato di vivere. Si avvera, qui e ora, quanto l’apostolo Paolo scrive nella sua lettera ai Romani: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Il segno più eloquente di tale dono oggi sei tu, caro Leonardo, insieme alla Parola e all’Eucaristia, e all’assemblea qui riunita.

Ciò di cui sei segno costituisce anche il compito precipuo del presbitero: condurre i fedeli e tutte le persone incontrate a conoscere e a fare esperienza dell’amore primordiale e preveniente di Dio in Gesù per noi. L’aspetto caratterizzante l’ordinazione al ministero presbiterale sta in questo, che essa non è innanzitutto un’azione abilitante e professionalizzante, ma una conformazione personale: ciò che farai proverrà dal tuo essere personale trasformato dal sacramento prima che da un addestramento o da una competenza. E tuttavia il tuo essere ordinato non cambia lo statuto fondamentale della tua identità cristiana, semmai la mette in risalto e la plasma per il servizio pastorale al popolo di Dio. È esattamente questo ciò che vuole trasmetterci san Paolo.

Ciò che egli dice ci riguarda direttamente, perché quei deboli, empi e peccatori, dei quali egli parla, dicendo che per essi Cristo è morto, sei tu e siamo tutti noi. Se non abbiamo questa coscienza, anche noi ordinati, rischiamo di rendere vano il nostro ministero. Vano non nella validità sacramentale, bensì nella qualità spirituale e nell’efficacia pastorale. Non si tratta solo del livello della moralità personale, che può essere anche esemplare, ma della condizione umana che ci affligge tutti intaccando variamente di fragilità la storia di ciascuno. Per questo noi stessi, pastori ordinati, dobbiamo testimoniare, innanzitutto e previamente ad ogni iniziativa, la coscienza di fede che Cristo è morto per noi, è morto per me, e che solo grazie al suo amore assolutamente preordinato posso accedere al cammino di salvezza e addirittura essere adottato come strumento di salvezza per gli altri. Se non mi sento salvato e sempre bisognoso di salvezza, se non mi sento amato a prescindere e perciò chiamato e ordinato senza alcun mio merito, allora il mio ministero è in pericolo, è compromesso. San Paolo usa l’espressione «persona buona» per dire che non è il nostro caso; non siamo stati scelti perché siamo persone buone, ma diventiamo persone buone se accettiamo di essere stati scelti e redenti dalla morte di Gesù per noi e quindi dal suo amore per noi. Se abbiamo questa coscienza, se portiamo questa radicale presenza a noi stessi, il servizio che svolgeremo avrà la qualità che gli è propria, quella di manifestare e trasmettere l’amore di Dio.

Anche i destinatari del nostro ministero sono connotati da questa condizione. La tentazione del perbenismo ha sempre accompagnato la pastorale ecclesiale. Viene facile e perfino desiderabile circondarsi di persone a posto, con tutte le carte in regola, e non voglio certo dire che questo sia per principio da evitare. Ciò che però Gesù ci dice è che il pastore lascia da parte le pecore, per così dire, ‘a posto’, per andare a recuperare quella perduta. Del resto già Ezechiele lo aveva proclamato: «io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le farò uscire dai popoli e le radunerò da tutte le regioni». E aggiunge: «andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata», dopo di che si prenderà cura anche delle altre. Questa lezione vale per noi e vale oggi. Dobbiamo interrogarci sulle pecore perdute di oggi e sulla cura che di fatto riserviamo a loro. È un interrogativo che deve inquietare innanzitutto noi pastori, noi ordinati. Non temere di lasciarti inquietare da questa domanda, caro Leonardo, per scorgere in essa la ricerca che l’amore di Gesù rivolge ai marginali, agli estranei, ai lontani. È questione di amore. E, d’altra parte, se viviamo consapevoli dell’amore che ci ha salvati e redenti, che ci ha scelti e ci ha mandati, lo stesso amore ci spingerà spontaneamente verso quanti – perduti e smarriti – il Signore ci metterà sulla strada della vita.

Ma questo tocca anche voi, cari fratelli laici, non legittimati tanto a rivendicare il diritto di avere un prete e di averlo con le caratteristiche che meglio vi aggradano, ma chiamati anche voi a partecipare della missione pastorale della Chiesa con spirito di sincera collaborazione e di cordiale condivisione delle stesse premure dell’unico pastore, e perciò non occupando e rivendicando ruoli e spazi, ma creando reti e movimenti di coinvolgimento sempre più estesi di altri fratelli, di apertura a quanti hanno solo bisogno di essere raggiunti dai segni di quell’amore che ha portato Gesù a morire anche per loro.

Nella luce di questa parola che tutti ci tocca e interpella, eleviamo ora la nostra preghiera perché Leonardo, conformato a Cristo pastore dalla forza dello Spirito operante nel sacramento dell’ordine, diventi ogni giorno di più presbitero secondo il cuore di Cristo.