Omelia ordinazione sacerdotale di Paride Bove (02/10/2016 – Cattedrale Latina)

03-10-2016

OMELIA

Domenica XXVII TO C

Latina, Cattedrale di S. Marco, 2 ottobre 2016

Ordinazione presbiterale di Paride Bove

+ Mariano Crociata

Caro Paride,

questa assemblea liturgica mostra il volto bello della nostra Chiesa e parla del tuo cammino vocazionale che oggi giunge a compimento con la tua ordinazione presbiterale. Ne siamo grati al Signore e a lui chiediamo la grazia di assisterci in questo momento e di accompagnarti nel cammino che oggi intraprendi.

È grande il dono che oggi ricevi e che, insieme a te, la nostra Chiesa, a cominciare dal suo presbiterio, accoglie. Di questo dono parla la pagina della lettera a Timoteo, indicandolo esattamente con la parola charisma, che sottolinea la gratuità, la grazia del dono, e insieme la sua intrinseca qualità destinata a raggiungere l’effetto per cui è concesso, e cioè rendere testimonianza al Vangelo di Gesù Cristo con la parola e con la vita.

La tradizione cristiana, attraverso le formule in persona Christi/Ecclesiae ci consegna una immagine del presbitero che fa rigorosamente riferimento a Dio e al suo Cristo, e nello stesso tempo anche alla Chiesa, nel cui nome e con la cui forza egli agisce. Prima di indicare un agire, però, tali formule parlano di una qualità originaria, costitutiva. “Uomo di Dio” è l’espressione con cui si definisce anche nel linguaggio comune un uomo spirituale, una persona profondamente credente, un prete autentico. La tonalità devota e quasi bigotta dell’espressione, rilevabile nell’alone che l’uso linguistico tramandato talora ne trasmette, non deve ingannare sul suo reale significato, che non a caso ha un carattere preciso: il suo modello, infatti, è Cristo uomo di Dio non solo perché personalmente suo Figlio, ma perché umanamente assorbito in tutto da lui; egli è così profondamente immerso in Dio da risultare proprio per questo solo lui pienamente uomo, umanamente conforme all’immagine che egli stesso divinamente è, a come Dio ha pensato e voluto originariamente la persona umana. Dio è il centro della vita di Gesù: egli ne è così intimamente preso da non riuscire ad esserne distratto da alcunché, perché trova in lui la ragione e la gioia del suo umano esistere.

Ma il presbitero non potrebbe essere così profondamente afferrato da Dio e dal suo Cristo se non vivesse nel circuito di coloro che già gli appartengono, in quella comunità ecclesiale che ha consistenza spirituale divina al cuore e al fondamento della sua estensione sociale. Essere nella Chiesa è manifestazione e garanzia di appartenenza a Cristo. Il prete è “uomo di Chiesa” (de Lubac direbbe vir ecclesiasticus) non perché gerarchicamente inserito in una organizzazione religiosa, ma perché partecipe e responsabile di una comunione di cui Cristo è la ragione e il centro e a cui si vota senza riserve.

La traduzione di questi due tratti costitutivi del prete è già implicita nelle espressioni “uomo di Dio” e “uomo di Chiesa”; esse vogliono dire che il prete non si appartiene, non è per se stesso, è invece un “uomo per gli altri”. Uomo per gli altri perché vive del Vangelo che ha il compito di portare a tutti e perché, mosso dal Vangelo, crea comunione e promuove relazioni di fraternità, senza trascurare soprattutto l’indigente, il disperato e chiunque sia in ricerca: di pane, di amore, di senso.

La liturgia dell’ordinazione si dispiega illuminando il volto di questa peculiare figura di cristiano posto a servizio della comunità che è il prete. Attorno all’imposizione delle mani – gesto originario ed essenziale di trasmissione della potenza dello Spirito, come ricorda ancora la pagina paolina, senza la cui energia divina niente è possibile al servitore più diligente, come tale sempre comunque servo inutile – si dispongono la preghiera di ordinazione e l’invocazione dei santi, l’elezione e gli impegni (manifestazione di una risposta alla chiamata docile e decisa insieme), i riti che rendono espliciti il significato e il compito che il ministero affida: la vestizione, l’unzione delle mani, la consegna della patena e del calice, l’abbraccio del vescovo e del presbiterio di cui il nuovo presbitero entra sacramentalmente a far parte.

Tutto questo potrebbe, in un certo senso, essere ripetuto sotto qualsiasi costellazione, qualunque sia il tempo e il luogo. Che cosa lo rende vero qui e ora? Che cosa significa essere prete oggi? Che cosa chiede? Sono domande troppo grandi per una breve presa di parola e per una circostanza come questa. Ma sono domande che accompagnano sempre noi preti, chiamati a leggere il tempo in cui viviamo (ce lo impone il Vangelo), e non solo a offrire più o meno qualificate prestazioni religiose.

È innanzitutto la stessa Scrittura a invitarci a leggere i segni dei tempi, come anche le pagine odierne illustrano, con le traversie che Israele patisce nell’esperienza di Abacuc, nelle persecuzioni esterne ma anche nei travagli interni che sommuovono le comunità cristiane della fine del primo secolo e oltre. Qual è la risposta della Scrittura? Semplicemente l’appello alla fede, a una fede che sa illuminare il presente: una fede che inerpica sulle vie della pazienza nella certezza che al tempo della prova è stato fissato un termine, una fine; una fede che si riconosce piccola e debole e si trasforma in preghiera per ricevere più forza e più luce; una fede che non presume mai di sé, ma dopo aver consumato tutta la dedizione possibile riconosce inutile il proprio servizio e si fa forte solo della fiducia incondizionata in quell’unico sorprendente padrone che, alla fine di tutto, fa mettere a tavola i suoi servi e passa lui stesso a servirli; una fede che è anche custodia fedele della paratheke, quel “bene prezioso”, come ora viene tradotto, che conoscevamo come “deposito della fede”, troppo spesso ridotto a inerte corpo dottrinale, quando è invece il tutto della fede, la verità vivente del Cristo risorto e presente, attorno e sotto cui cresce la Chiesa, la comunità dei credenti e perciò dei salvati, come tale “bene prezioso” da custodire gelosamente e condividere generosamente.

Anche oggi non viviamo tempi floridi e il dono di un nuovo sacerdote dovremmo apprezzarlo come una grazia straordinaria e il segno di una benevolenza singolarmente amorevole di Dio verso di noi. La realtà in cui siamo immersi è paradossale, poiché insieme alla riduzione dei numeri e della qualità, rivela una persistenza di fondo che dice come si trovino ancora attorno a noi condizioni di favore all’opera apostolica e all’annuncio del Vangelo. Ci sono segnali di un bisogno e di una attesa che rivelano come parte del terreno sia pronta ad accogliere il seme della Parola. Ci vuole solo un po’ di fede per accorgersene e prendere l’iniziativa.

Di essa abbiamo bisogno noi preti, in primo luogo. E il segno di questa fede, anche di questi tempi, è il coraggio. «Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro». È la Parola che questa celebrazione ti consegna, caro Paride; ma essa è anche per noi, cari confratelli: annunciare e testimoniare senza timore, certi che Dio ci precede nell’opera apostolica e che egli si è già formato un popolo ben disposto in questa nostra terra.

A voi tutti, cari amici, è chiesta la condivisione cordiale e gioiosa di questo compito e della missione cristiana tutta intera. La fede dei vostri presbiteri, nella loro vita e nel loro ministero, vi dia forza; e la vostra fede sia il loro sostegno, tutti consapevoli come siamo di avere bisogno di una più grande capacità di credere e di amare.

Con la consapevolezza di questo bisogno ma, insieme, con la certezza che il Signore è con noi e non ci abbandona, accostiamoci ora alla liturgia di ordinazione.