Omelia ordinazione episcopale mons. Giovanni Checchinato (23/04/2017 – Latina)

24-04-2017

OMELIA

Domenica II di Pasqua

Latina, Parrocchia S. Cuore – 23 aprile 2017

Ordinazione episcopale di Mons. Giovanni Checchinato

+ Mariano Crociata

Il Risorto viene a noi anche oggi per portare pace e perdono, per conferire il mandato missionario e trasmettere il suo Spirito. Quel Gesù che abbiamo contemplato vittorioso sulla morte lungo i giorni dell’ottava, annuncia che la sua risurrezione non tocca solo lui ma è per noi, per la nostra rigenerazione, come dice san Pietro, per una eredità messa in serbo per noi. Perciò siamo ricolmi di gioia, di una gioia indicibile e gloriosa.

Il dono del Risorto non raggiunge ciascuno per conto suo, isolatamente; genera invece comunione, crea comunità, fa la Chiesa, come già quella degli inizi che contempliamo nel quadro idealizzato che la pagina degli Atti tratteggia nelle sue linee essenziali: «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere»; e poi ancora nella condivisione dei beni a misura del bisogno di ciascuno e nella mensa comune in letizia e semplicità di cuore, nella lode di Dio e il favore di tutto il popolo.

Il dono del Risorto ha un punto nevralgico, un centro sorgivo, che è la fede. «Tutti i credenti», dice Atti; e san Pietro riconosce che i suoi destinatari amano Gesù Cristo e sono «custoditi mediante la fede», raggiungendo così «la mèta della […] fede: la salvezza delle anime». Quella di Tommaso, invece, è una fede bisognosa di conferme; ma di fronte ai segni del Risorto anch’egli è pronto a professare senza esitazione: «Mio Signore e mio Dio!». Perciò il Risorto può dichiarare «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto», perché hanno «la vita nel suo nome». Vorremmo udire rivolte a noi le parole di Pietro: «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui».

Ci sentiamo davvero ricolmi di fede e di gioia per la grazia che ci raggiunge, resa ancora più sovrabbondante dall’ordinazione episcopale di don Gianni Checchinato: grazia per lui, ma anche per tutti noi e soprattutto per la Chiesa di S. Severo, oggi così significativamente presente qui con noi. Prende rilievo con una attualità tutta singolare la parola rivolta per la prima volta dal Risorto ai discepoli raccolti insieme: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». La ascoltiamo diretta in modo speciale a te, caro don Gianni. Chiamato, mandato e ora ricolmato di Spirito Santo: è la parabola che stai vivendo da quando sei stato eletto Vescovo di S. Severo. È Gesù Risorto che ti ha chiamato, ti manda e ti trasmette il suo Spirito. Non ci può essere spazio per il timore, come quello, nei confronti dei giudei, dei discepoli rimasti al chiuso fino all’apparizione del Signore. Anche noi a volte rimaniamo bloccati dal timore per i pericoli e le minacce che ci assediano. Ma il Signore è con noi e ci convince facendoci toccare le mani e il fianco piagati, come a dire che egli ha sofferto e continua a soffrire per noi, disposto a sacrificarsi in tutto a favore nostro e a sostegno della missione che ci ha affidato.

Il ministero del Vescovo, e non da oggi, ha una peculiare connotazione apostolica e missionaria. Il Papa lo richiama con insistenza, quando ci ammonisce che non siamo funzionari o dignitari, ma pastori che escono in campo aperto e vivono mescolandosi con il gregge per il quale non esitano a spendere e a dare la vita. La Chiesa ha conosciuto di tali pastori, anche in contesti e in epoche diverse dalla nostra. Oggi non si tratta soltanto di possederne l’attitudine e l’intenzionalità personali, ma di corrispondere a un modello spirituale ed ecclesiale verso cui stiamo lentamente avanzando senza che possiamo ancora dirlo definito. Tanto più che anche noi Vescovi, a somiglianza dei nostri preti, siamo sovraccarichi non solo di impegni pastorali ma di incombenze amministrative e gestionali per certi versi inversamente crescenti a fronte delle risorse personali e materiali sempre minori di cui disponiamo.

Nondimeno la Parola di Dio e la sapienza della Chiesa ci riportano alle condizioni costitutive che connotano la nostra missione apostolica. La prima di esse è la grazia e la cura della fede, che il Risorto ci concede senza riserve. Il nostro ministero, caro don Gianni, ha il compito precipuo di sostenere e custodire la fede, in noi stessi, nei ministri ordinati e nei fedeli tutti. Fede significa coscienza di verità e di retta dottrina, secondo quanto la Chiesa ci consegna dell’eredità apostolica a cominciare dalla Sacra Scrittura. Fede significa anche fiducia e confidenza, una qualità ancora più importante in tempi di oscuri timori per il futuro e di diffusa diffidenza, se non peggio, nelle relazioni sociali. La nostra fede possiede, come tale, una forza missionaria, perché annuncia l’affidabilità di Dio e la possibilità di una vita sensata e serena anche in un tempo come il nostro. Le nostre parole dovrebbero avere il potere che è sempre proprio della Parola di Dio, quello cioè di illuminare la strada, di indicare un futuro possibile, una esistenza sensata. I nostri fedeli attendono da noi parole che sappiano orientare in mezzo a tutto ciò che ci va accadendo passo passo, per cogliere il bandolo di una storia che assomiglia più a un garbuglio che a una narrazione ordinata. E una parola di verità ha sempre l’effetto di allargare il cuore delle persone e di aprirlo alla speranza. Parole sensate, poi, sono sempre accompagnate da un senso positivo della vita e della realtà, nonostante i segnali allarmanti e i drammi che si consumano. Siamo persone di fede se rimaniamo persone non angustiate sia pure in mezzo a mille angustie. La gioia della risurrezione dovrebbe essere la nota dominante della partitura che stiamo eseguendo con i nostri strumenti a volte malamente accordati.

Una seconda condizione della nostra missione apostolica è la responsabilità per la comunione. Essa lo è solo se la accogliamo e la coltiviamo innanzitutto nella sua qualità divina, che pertiene propriamente al Dio Trinità. La comunione non è una nostra costruzione, meno che mai il frutto delle nostre organizzazioni o di ordinamenti e regole di qualsivoglia natura. Saremo persone di comunione se, innanzitutto, ci lasceremo abitare dalla comunione delle Persone divine. Solo se abitati dalla comunione divina ne diventeremo efficaci strumenti. Questo vogliamo domandare e cercare ogni momento. Per questo la nostra opera principale è la liturgia e la preghiera. Siamo pontefici perché diventiamo noi stessi ponti per l’iniziativa divina verso un’umanità diseredata, di cui ci facciamo portavoce e offerta presso l’Altissimo unicamente per i meriti dell’offerta di Cristo. Con il carico incommensurabile di questa divina comunione la nostra azione consisterà in un’opera instancabile di tessitura di relazioni, di costituzione-riparazione-rafforzamento di relazioni, dentro e fuori la comunità ecclesiale. Abbiamo bisogno di un cuore grande, lo sai bene, caro don Gianni, capace di fare spazio il più possibile a tutti, senza limiti. Abbiamo bisogno di essere imparziali ma non indifferenti, pronti a voler bene senza fare preferenza di persone e senza escludere nessuno, accoglienti e aperti oltre ogni confine. Con questo stile le nostre comunità diventeranno segno, se non realizzazione, di nuclei sociali nuovi, fermento di nuova socialità, umanamente significativa per quanti anelano a una vita buona e a relazioni sincere. In tanti sono alla ricerca di simili luoghi, quasi oasi nel deserto, purché le nostre realtà ecclesiali non si riducano esse pure a deserti, per lo smarrimento del senso di umanità e di dignità, del rispetto e dell’attenzione alle persone, del calore umano e di un amore sincero. È un compito che non possiamo dissimulare dietro tante opere di bene in cui pure generosamente profondiamo energie e risorse.

Un’ultima condizione mi sembra necessario richiamare: il servizio dell’autorità. Sempre l’apostolo Pietro, per un verso invita a pascere il gregge di Dio sorvegliandolo volentieri, con animo generoso, non da padroni ma come modelli del gregge (cf. 1Pt 5,2-3); per altro verso dice che «chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio» (1Pt 4,11). I nostri preti e i nostri fedeli hanno bisogno non di autoritarismo ma di autorevolezza, di paternità non di paternalismo, non di diplomazia ma di serietà, di fedeltà e coerenza. Penso con trepidazione al fatto che tante persone hanno messo la loro vita nelle nostre mani e tremo all’idea che possano alla fine sentire di essere in mano di nessuno. Accettando il ministero ci siamo impegnati, con la grazia di Dio, ad essere testimoni credibili di un Dio affidabile. Non siamo noi a garantire per Dio, ma abbiamo la responsabilità di non ostacolare, con il nostro modo di essere e di fare, l’esperienza dell’affidabilità di Dio. In un tempo in cui si lamenta a gran voce l’assenza dei padri, vediamo raddoppiarsi la nostra responsabilità di essere segni umanamente plausibili della paternità di Dio, capaci di annunciarla oltre i confini del mondo ecclesiale.

Ti accompagniamo con questi pensieri, e soprattutto con la preghiera, la stima e l’affetto, caro don Gianni. Con l’augurio di essere pastore secondo il cuore del Signore risorto, il pastore supremo, al quale ora consegniamo ogni attesa e invocazione, perché con la potenza del suo Santo Spirito operi in te quella trasformazione che nel sacramento lui solo è in grado di compiere, a beneficio della tua e della nostra Chiesa.