Omelia Ministero dell’Accolitato ad Alessandro Aloè+altri (12/12/2018 – Seminario di Anagni)

12-12-2018

OMELIA

Ministero dell’Accolitato

Anagni, 12 dicembre 2018

✠ Mariano Crociata

La liturgia del tempo di Avvento ci incanta con le sue suggestioni, tra le quali una delle più intriganti è data dai richiami interni tra le letture, ben più che in ogni altra disposizione della proclamazione delle pagine bibliche nell’ordinamento liturgico. L’espressione «Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato» della pagina di Isaia con quel che segue, trova eco nel «voi tutti che siete stanchi e oppressi» e seguito della pagina di Matteo. Nel perseguire il comune obiettivo di infondere speranza e coraggio, i due orizzonti biblici si caratterizzano in maniera differente: Isaia, il predicatore della trascendenza assoluta e della sovranità incommensurabile di Dio che argomenta su tale base il potere di sovvertire i destini umani di esiliati ormai rassegnati e impotenti a concepire una via d’uscita e di salvezza; Matteo, lo scriba divenuto discepolo del Regno, che trae cose nuove e cose antiche dal suo tesoro (cf. Mt 13,52), il quale prova a trasmettere la sorpresa incancellabile di una rivelazione divina che raggiunge i poveri e i piccoli, gli stanchi e gli sfiduciati con la stessa immediatezza e intimità che c’è tra Padre e Figlio grazie alla condiscendenza del Figlio eterno nella sua umile umanità e grazie alla fede con cui i credenti guardano e si accostano a lui. In ambedue viene svelato il segreto dinamismo della fede o, se si vuole, il metodo che i credenti devono imparare per affrontare una condizione di prova e di avversità. Esso si condensa in questo: fidarsi della parola profetica ed evangelica fino a vedere sprigionare in sé energie insospettate nel farsi carico della propria condizione esistenziale ed affrontare la vita con le sue prove e le sue sfide, anticipando nella certezza della fede e nella forza della speranza la consolazione della meta e la gioia dell’incontro.

Qualche domanda sorge di fronte a tale prospettiva. E, più che domande, i dubbi, le paure, incertezze ed esitazioni, soprattutto la forza greve e schiacciante del peso della fatica e della pena, a volte perfino del fallimento e dello sconforto, che impedisce di sollevare anche solo un poco il capo. È ancora Isaia a porgere il comando più concreto ed efficace: «Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato tali cose?»; l’invito di Gesù a sua volta è ancora più diretto: «imparate da me». Non è come apprendere una lezione, e poter dire di saperla a menadito; bisogna che diventi carne della nostra carne e sangue del nostro sangue.

Proprio così: carne e sangue, come quello che viene a consistenza sacramentale sull’altare per la persona del Verbo incarnato, morto e risorto nella potenza dello Spirito. Bisogna tornare a levare il capo e avere la pazienza di imparare, ma non una lezione fatta di cose da sapere, ma una promessa e una presenza da far proprie con il cuore e con tutto il proprio essere. Abbiamo bisogno di tornare sempre di nuovo ad attingere alla sorgente della parola rivelata fatta carne, per assimilare un sapere che è sapienza di vita e da cui si impara a lasciarsi trasformare da una fede, tanto più vera e profonda quanto più è capace di sprigionare energie per un cammino e per una destinazione che non sembrano avere alcun appiglio nelle presenti circostanze ma che sono posseduti unicamente per la potenza creatrice e trasformante della fede. «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6).

Tornare ad ascoltare e a celebrare: di questo abbiamo bisogno. E le due cose non solo stanno insieme, ma sono intrecciate e circolari, perché le parole vere sono quelle che vengono dal Verbo fatto carne e diventano a loro volta carne e sangue nella vita del credente; e la carne e sangue sacramentali danno vita e prendono vita in noi quando le parole ascoltate saranno state messe in pratica fino all’ultimo iota e all’ultimo apice, in piena adesione alla volontà del Padre.

Il culto cristiano non è solo culto: è trasformazione dell’esistenza credente resa culto gradito a Dio, secondo l’espressione paolina: «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Il culto cristiano è verificato, reso vero, dall’esistenza offerta in sacrifico a Dio, e da tale verifica è richiesto nella sua forma rituale per alimentare la fede, cioè lo sprigionarsi nel cuore dell’esistenza quotidiana ordinaria della potenza di speranza e di futuro che racchiude la promessa di Dio creduta e la sua grazia partecipata per la fede.

Voi, cari accoliti, siete istituiti per testimoniare tutto questo con la vostra vita e con il vostro servizio all’altare. Lo stile di tale servizio, ineccepibile nell’osservanza delle rubriche ma prima ancora per l’intima profonda partecipazione e per la consonanza interiore al ministero a cui avete la grazia e l’onore di collaborare, a beneficio non solo vostro ma di tutto il popolo cristiano, trasmetta il vostro apprendere e il vostro voler fare apprendere l’unità di esistenza e culto.