Omelia funerali mons. Massimo Coluzzi (04/03/2016 – Norma)

04-03-2016

OMELIA

Funerale di mons. Massimo Coluzzi

(2Cor 4,14-5,1; Gv 5,24-29)

Venerdì 4 marzo 2016

+ Mariano Crociata

 

Per la nostra Diocesi è una perdita dolorosa quella del sacerdote don Massimo Coluzzi, testimone, con la sua memoria e con la sua vita, delle significative trasformazioni che hanno segnato l’organizzazione ecclesiale di questo territorio. Lo è particolarmente dolorosa, la sua perdita, per Norma, nella quale egli ha trascorso la maggior parte della sua vita di sacerdote. A Norma è nato il 6 ottobre 1928 e qui è morto il 2 marzo scorso. Formato prima a Velletri e poi ad Anagni, è stato ordinato sacerdote il 12 luglio 1952. I suoi primi anni di ministero li ha dedicati ai giovani. È stato prima educatore in seminario e poi, già dal 1957, vicario parrocchiale qui a Norma fino al 1962, quando tornò a operare in seminario e nella pastorale giovanile a Latina, dove sceglierà, come altri confratelli, di essere incardinato dopo la ridefinizione dei confini delle diocesi. Già nel 1968 viene nominato parroco a Norma, dove rimarrà nella carica fino al 2003. Siamo, così, di fronte a una lunga vita spesa per il Signore e per la Chiesa. Ne ringraziamo il Signore e a lui presentiamo don Massimino perché accolga l’offerta della sua vita, raccolga i frutti del suo ministero e copra con la sua misericordia le fragilità e le mancanze che, come tutti gli umani, anche lui ha potuto conoscere.

Avvertiamo in momenti come questo qualcosa dei misteriosi legami che si intrecciano tra di noi, in quanto umani innanzitutto, e poi in quanto credenti, infine in quanto ministri uniti nel presbiterio dal carattere sacramentale. Ci vuole uno sguardo di fede per cogliere dimensioni da cui le manifestazioni esteriori spesso tendono a distogliere l’attenzione, lasciando che gli aspetti più superficiali ottundano la capacità di penetrare i drammi e le speranze, le lentezze e i cammini che si consumano nel segreto della coscienza, della relazione con Dio e di quella con alcuni pochi o molti altri compagni di strada. La morte ha il potere di sfrondare da tutto ciò che di epidermico e di inessenziale finisce quasi con l’appiccicarsi addosso alla nostra figura umana e spirituale, nascosta dietro un’apparenza ingannevole che impedisce – tante volte salutarmente – di vedere la verità nella sua nuda e cruda verità. Questa, con la morte, certamente si dispiega ormai senza ombre agli occhi di Dio che – noi lo imploriamo! – vede nella luce della sua misericordia il volto di quanti si presentano al suo cospetto, come ora don Massimo. Siamo peraltro consapevoli che lo sguardo di Dio non è quello di un osservatore distaccato e ininfluente, o peggio ostile, è invece uno sguardo creatore, che trasforma ciò che contempla e ricrea ciò che è deformato e deperito. Lo fa per mezzo di Cristo e nello Spirito, in modo speciale attraverso i sacramenti che sono stabiliti come canali privilegiati di una grazia che anche don Massimo ha fatto passare a favore di molti attraverso il suo lungo servizio pastorale.

La debolezza e la malattia dei suoi ultimi anni ci invitano a guardare con fede a questa fase e a questa dimensione della nostra condizione. Si tratta di dare senso a un tempo di debolezza e di sofferenza nella convinzione che c’è qualcosa di più profondo di quanto si possa cogliere a uno sguardo superficiale. Il brano di san Paolo ci dice che la risurrezione di Gesù è in vista della nostra risurrezione e la sua grazia è capace di moltiplicarsi senza limiti in noi e attraverso di noi. Perciò non dobbiamo scoraggiarci – lo abbiamo appena ascoltato – di fronte al disfacimento del nostro uomo esteriore, poiché – in un modo che non riusciamo sempre a discernere – avviene una crescita e una maturazione di fronte a Dio che sembra impossibile a chi guardi solo al processo di decadimento che la nostra vita fisica e la nostra struttura umana complessivamente subiscono. Bisogna allora aguzzare la vista e penetrare con fede, immettere una intenzionalità di speranza e di amore in una condizione che può diventare feconda nel procurarci «una quantità smisurata ed eterna di gloria», inserendoci in quella eternità che Dio promette e concede a quanti confidano e si affidano a lui.

L’evento della morte di un sacerdote e il confronto con la nostra esperienza di caducità, ma anche di certezza nel potere di Dio di darci lui una nuova abitazione in cielo, ravvivano in noi la certezza credente che il Signore non cessa di guidare e proteggere la nostra vita preparandoci all’incontro definitivo con lui nella pienezza della gloria. Semmai questa rinnovata esperienza di perdita umana e di purificazione della fede devono darci il senso di una responsabilità e di un impegno accresciuti, ciascuno nella condizione di vita che si trova a condurre. Dobbiamo cercare di non dimenticare mai ciò che il Vangelo ci dice: «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Non per una iniziativa estrinseca, ma per la natura stessa della creatura umana con la sua libertà e dell’iniziativa redentrice di Dio in Cristo Gesù, tempo ed eternità, libertà e giudizio ultimo sono strettamente intrecciati. Noi stiamo decidendo giorno per giorno che cosa sarà di noi alla fine; noi stiamo scrivendo giorno dopo giorno la sentenza che alla fine sarà pronunciata su di noi. Guardiamoci dal rimuovere questa verità, ma riportiamola costantemente alla nostra coscienza di credenti e di preti che si sanno non abbandonati a se stessi ma affidati alla misericordia di Dio, che diventa allora con noi, a misura della nostra fede e preghiera, autore di un giudizio non di condanna ma di salvezza, di amore e di comunione: amore e comunione secondo cui continuare o cominciare a vivere già da oggi, anzi già da questo momento.