Omelia alla Veglia di Pentecoste (14/05/2016 – Cattedrale San Marco, Latina)

15-05-2016

OMELIA

Veglia di Pentecoste

Latina, Cattedrale di S. Marco, 14 maggio 2016

+ Mariano Crociata

 

La Veglia di Pentecoste ci dona di ritrovarci ancora una volta come Chiesa nella completezza della sua rappresentanza. Vi ringrazio di aver accolto l’invito a partecipare e vi chiedo di far giungere il nostro comune saluto anche a quanti non hanno avuto la possibilità di essere presenti o chiedono il ricordo della preghiera. Qui il nostro essere Chiesa si esprime e si rinnova, si manifesta e si edifica. Qui ancora una volta siamo veramente Chiesa.

Sono tanti i doni che il Signore con il suo Spirito continua a elargire alla nostra comunità diocesana: non solo la nascita di nuovi figli, con il battesimo e l’iniziazione cristiana, il matrimonio e gli altri momenti costitutivi della vitalità dell’organismo ecclesiale, ma anche il cammino che stiamo percorrendo in un atteggiamento di rinnovato ascolto e poi ancora il fervore di iniziative che ciascuno di voi ben conosce nelle comunità parrocchiali e in tutti i luoghi in cui crescono e maturano frutti di vita cristiana.

Un dono del tutto singolare è stata l’elezione all’episcopato di don Felice Accrocca, per il quale nelle scorse settimana abbiamo levato preghiere che questa Veglia in modo conclusivo raccoglie e condensa alla vigilia della sua ordinazione. Questa circostanza non può non segnare in modo speciale il nostro incontro, perché ci ritrova grati e commossi per i segni della benevolenza di Dio, e anche pensosi, ma non per questo meno fiduciosi, su quanto il Signore va disponendo per noi. Questa gioiosa circostanza contiene e indirizza un messaggio. Esso dice che crescono in mezzo a noi frutti chiamati a fecondare la Chiesa oltre i confini della comunità diocesana. Quello che costituisce una tra le manifestazioni più alte, dopo la santità, della fecondità della Chiesa, appunto l’episcopato quale pienezza del sacerdozio e perpetuazione del ministero apostolico, racchiude ed evoca la molteplicità di frutti spirituali e pastorali che ci arricchiscono gli uni gli altri dentro la comunità diocesana e nella Chiesa intera. Ci sentiamo perciò confermati nella consapevolezza che nessuna realtà ecclesiale può essere trattata come un mondo chiuso, né la diocesi né la parrocchia, né alcun’altra forma di comunità o di aggregazione. Il soffio dello Spirito non sopporta, ma spazza via con il suo vento impetuoso, l’aria stantia degli ambienti chiusi nei quali finisce soffocato ogni respiro vitale. Senza dare adito a disordine o anarchia, bisogna accompagnare a crescere ogni buon seme di vita buona e di fede sincera. È il compito dei pastori ed è il compito di collaboratori e comunità tutte. Siamo i propiziatori di un universo che nasce dietro le apparenze di un mondo che tramonta. Quanti fermenti attorno a noi, sconosciuti ai più e magari disprezzati e maltrattati dai pochi che pure se ne avvedono, avrebbero solo bisogno di essere circondati di un minimo di cura per diventare piante solide, portatrici di buoni frutti. Uno di questi frutti è il cammino di vita e di ministero di don Felice. Basti pensare a quanti hanno contribuito alla sua formazione e al suo servizio nel ministero e nell’insegnamento, e a quanti a loro volta hanno ricevuto dalla sua appassionata dedizione pastorale e culturale. In una circolarità inesauribile cresce sempre la Chiesa, nelle sue manifestazioni più semplici e ordinarie come nelle sue realizzazioni più qualificate ed eccelse. Sarebbe un errore grave di distorsione dell’ottica credente ridurre questo evento a un dato di mero successo personale. Leggere così le cose sarebbe un cedimento mani e piedi alla logica del mondo, che spesso purtroppo si insedia pure nel cuore delle comunità cristiane e di credenti che dovrebbero essere maturi per esperienza e giudizio. Non siamo di fronte a una promozione personale, ma alla chiamata a un servizio per la comunità. E come ci attesta l’apostolo Paolo, non è detto che sia il più importante e il più necessario, perché di tutti i ministeri, i servizi e le collaborazioni vive la Chiese; solo attraverso tutti essi l’unico Spirito opera ciò che vuole per l’edificazione del corpo di Cristo. Dobbiamo vedere dunque, come molti hanno già cominciato a fare, un segno della vicinanza di Dio e della sua efficace operosità, che ha trovato disponibilità e accoglienza in mezzo a noi e in tanti di noi, così che non resta altro da fare che dedicarsi ancora di più e con tanto maggior entusiasmo e amore al servizio della comunità. Senza dimenticare che il ministero più grande e il servizio più prezioso è quello che si compie nella santità e come cammino di santificazione. Senza la carità, in cui consiste la santità vera, siamo bronzi e cembali stonati che suonano a vuoto solo per turbare il silenzio e disturbare le orecchie di quanti attendono invece di sentire risuonare la voce di Dio.

E la voce di Dio, in questa vigilia di Pentecoste, ci invita ad andare a lui per bere alla fonte dello Spirito fino a diventare noi stessi sorgente inesauribile di acqua viva. Quanto è impressionante questa immagine che trova così scarsa corrispondenza in noi! Mi chiedo se e quanti incontrandomi sentono gorgogliare l’acqua dello Spirito dalla sorgente della mia vita interiore. È la domanda che dovrebbe inquietare ciascuno di noi. Essa ci riporta al cammino di quest’anno contrassegnato dal bisogno di “ascoltare ancora”. In un secondo passo di questa riflessione omiletica desidero proprio concentrarmi su tale questione leggendola sullo sfondo dell’attualità. Non sono aduso a riferirmi alle vicende della vita civile, di cui peraltro rispettiamo la legittima autonomia, salvo la responsabilità di cittadini che ci compete comunque e il rilievo sociale ed etico che la nostra fede non può dissimulare nelle circostanze ordinarie della vita e, ancora più, nei passaggi più significativi della vita associata. Le circostanze a cui mi riferisco sono l’approvazione nei giorni scorsi di una legge che ha avuto il sapore di una sonora sconfitta per ampi settori della società, non solo espressamente cattolici; e poi la prossima tornata elettorale amministrativa che interessa diversi comuni del nostro territorio e nei confronti della quale non è difficile raccogliere manifestazioni di scetticismo, se non di sconforto, circa le prospettive non incoraggianti dei suoi esiti per un effettivo cambiamento della qualità della vita dei cittadini e della collettività intera.

Colgo questi due segnali non perché abbia interesse a esprimermi nel loro merito, ma perché in modo diverso essi rivelano un inesorabile processo di dissoluzione di un tessuto etico e religioso condiviso. La Chiesa è ancora una istituzione socialmente rilevante, ma la sua capacità di incidenza nei processi decisionali delle dinamiche collettive e istituzionali appare sempre più ridotta se non del tutto volatilizzata. Vorrei che fosse chiaro che non c’è, nel dire queste cose, alcuna forma di nostalgia nei confronti di un passato che non mi appare affatto desiderabile per un suo ritorno; semmai quanto accade mostra ciò che è accaduto e sta accadendo a noi credenti, prima di ciò che è accaduto e sta accadendo nella società attorno a noi. Ho paura infatti che noi cadiamo facilmente preda dell’inganno di non vedere il problema che abbiamo, presi come siamo dallo scontento e dalla voglia di ritrovare nell’uno o nell’altro la responsabilità di un processo di cambiamento che ha cause troppo complesse per poter essere ricondotto ad una sola di esse.

Il problema che noi abbiamo è la labilità della coscienza credente e della responsabilità etica rispetto alla nostra vita e a ciò che ci accade attorno. Vittime anche noi dell’individualismo che rimproveriamo alla cultura imperante nel nostro Occidente, nel quale alla fine ci troviamo bene e vogliamo continuare a vivere nonostante le sue non poche contraddizioni, facciamo fatica a vedere con lucidità – e quindi a decidere con fermezza – ciò che può fare la nostra differenza rispetto agli altri. Facciamo fatica a capire quale dovrebbe essere la nostra identità e il nostro apporto per determinare non tanto un cambiamento – che avrebbe bisogno di ben altre forze e di altri fattori – quanto piuttosto la limpida segnalazione di una prospettiva, la disinteressata offerta di un esempio, la rispettosa condivisione di una testimonianza che dica a tutti chi siamo e come si può cambiare un andazzo che sembra portare inesorabilmente verso la dissoluzione delle persone, delle relazioni – familiari e sociali –, degli ordinamenti istituzionali, delle condizioni ideali e morali che formano il tessuto connettivo di una civile convivenza. Non abbiamo la responsabilità dell’intera società, ma se non riusciamo a dare il nostro apporto specifico di credenti con lucida coscienza e luminoso esempio, allora la minacciata consunzione della società civile ha già intaccato per primi proprio noi. Senza generalizzazioni e pessimismi, in realtà abbiamo bisogno di una coscienza nuova, per la quale “ascoltare ancora” costituisce la forza e fornisce il metodo.

«Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38). A chi andiamo noi? Dove ci dissetiamo? Che genere di acqua sgorga dal grembo della nostra vita interiore? Sono le domande che ci inquietano e che questa Veglia ci lascia, non perché perdiamo la fiducia, ma perché guadagniamo nuova visione e determinazione.