«Gesù educatore tra ebraismo e cristianesimo» (07/09/2016 – Convegno Facoltà valdese, Roma)

12-09-2016

Convegno

su “Le religioni come sistemi educativi. Il Cristianesimo”

Roma, Facoltà Valdese, 7 settembre 2016

«Gesù educatore tra Ebraismo e Cristianesimo»

+ Mariano Crociata

Educatore riferito a Gesù non è un titolo che i testi canonici conoscano. In epoca patristica Clemente Alessandrino si riserverà di dedicare una attenzione specifica a Gesù come pedagogo. Egli scrive nell’opera omonima: «Siamo bambini, abbiamo bisogno di un pedagogo, e l’umanità ha bisogno di Gesù […]. Lui è il pedagogo dei bambini» (Ped. 1,9,83-84). Significativamente egli colloca il Pedagogo dopo il Protreptico, nel quale parla del Logos come consigliere, rimandando a un’opera successiva che avrebbe dovuto avere come titolo Il Maestro, con una visione sistematica distante dall’esperienza che trasmettono gli inizi di Gesù di Nazaret, nei quali nondimeno essa affonda le sue radici.

Questi inizi sono accessibili a noi soprattutto nei Vangeli canonici, letti nel contesto e insieme alla vasta letteratura contemporanea di origine non solo cristiana, ma anche ebraica ed ellenistica. Ciò che risulta è di grande interesse storiografico: la cosiddetta ‘Terza ricerca’ sul Gesù storico, sviluppata negli ultimi decenni, ha permesso di conseguire una conoscenza articolata dell’ambiente, della cultura e della storia nei quali si colloca Gesù di Nazaret. In particolare prende risalto l’ebraicità di Gesù, dato per tanti versi ovvio ma non per questo evidente a tutti. Grazie a tali sviluppi, non pochi studiosi farebbero propria una affermazione come quella dell’ultimo Gerhard Lohfink, secondo cui Gesù «si muove completamente all’interno della Torah. […] Gesù è completamente anticotestamentario» (Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu?, Queriniana, Brescia 2014, 235-236).

L’aspetto da chiarire riguarda il modo come Gesù si muove all’interno della Torah e dell’Antico Testamento. Sbrigativo appare quanto scriveva Geza Vermes, secondo cui «“Gesù l’ebreo” […] è un sinonimo, caricato di valenze emotive, di “Gesù della storia” (contrapposto al Cristo divino della fede cristiana), che semplicemente ribadisce il fatto ovvio, ma ancora difficile da accettare per molti cristiani e persino per alcuni ebrei, che Gesù fu un ebreo e non un cristiano» (G. Vermes, Gesù l’ebreo, in L’ebraicità di Gesù, a cura di J.H. Charlesworth, Claudiana, Torino 2002, 121-136, qui 121). Se è indiscutibile che Gesù fu un ebreo, nondimeno la contrapposizione con il Cristo della fede cristiana si presenta forzata dal momento che proprio il modo come Gesù si è mosso dentro la sua religione è all’origine di quella fede. Sempre Lohfink parla della straordinaria capacità di discernimento di Gesù. Scrive al riguardo: «Gesù non si è semplicemente limitato a riprodurre e a ripetere l’Antico Testamento. E meno che mai lo ha ampliato con dei contenuti completamente nuovi, ma ha piuttosto individuato con una stupefacente sensibilità e capacità di discernimento […] il filo rosso della volontà di Dio» (cit., 227). E, bisogna aggiungere, insieme a questa originaria volontà, l’interiorità dell’uomo, la sua coscienza e la sua libertà.

Tutto questo avrebbe rilievo nella rilettura di Gesù come educatore anche nel caso in cui la categoria fosse tematizzata nel Nuovo Testamento; ne acquista ancora di più dal momento che solo induttivamente possiamo risalire a tale suo profilo. Ciò che Gesù è stato, ha detto e ha compiuto possiede senza dubbio una valenza educativa, ma questo soltanto al modo di effetto di un più profondo orientamento. Alla ricerca della intenzionalità di fondo che anima Gesù, troviamo alcuni indizi che ci parlano di lui: l’annuncio del Regno di Dio e l’agire potente con cui egli l’accompagna, i titoli con cui viene identificato e compreso, la chiamata dei discepoli e la scelta dei dodici, il contenuto e lo stile del suo insegnamento, particolarmente per mezzo di parabole, sono gli aspetti più vistosi rinvenibili soprattutto nei Vangeli.

Il progetto di Gesù, se così possiamo esprimerci, è davvero tutto interno all’orizzonte religioso ebraico e può essere riassunto nella formula “il raduno di Israele”. Egli si identifica interamente con tale compito che scaturisce dalla coscienza che la signoria di Dio è incombente e straordinariamente attiva, qui e ora. È tempo, perciò, che Israele si raccolga dalla dispersione e dalla divisione che lo affligge ormai da secoli, e che si renda finalmente idoneo a compiere la missione per cui è stato chiamato e creato, quella di essere segno di salvezza per tutti i popoli attraverso una risposta piena e una fedeltà incondizionata all’alleanza con Dio, testimoniata e consegnata nella Torah. La richiesta di credito e di fiducia nella sua parola e nella sua persona e l’invito a seguirlo, con la chiamata di discepoli e in modo tutto speciale con la costituzione del gruppo dei dodici, germe simbolico dell’Israele rigenerato, tutto questo è un segno peculiare e il fermento del nuovo inizio.

Cercare in un orizzonte così delineato tutti i possibili elementi di una pedagogia gesuana non è solo operazione di grande suggestione, ma anche percorso di indubbia utilità. Non mi pare questo, tuttavia, il contributo peculiare che possiamo raccogliere al riguardo. Esso sta invece nel riflesso o nel senso educativo del ‘progetto’ di Gesù. Un progetto interamente centrato sulla volontà originaria di Dio e sul suo disegno di salvezza per Israele e per mezzo di Israele. La figura di uomo plasmata da tale progetto è esattamente l’esito, sul piano educativo, della identità che Gesù possiede e della missione che egli sente di dovere svolgere. Egli si offre come modello supremo e come ispiratore instancabile: nel suo affidamento senza condizioni e nel suo votarsi senza riserve alla causa con cui si identifica e al Padre che ne è l’origine e il fondamento. Egli indica, in tal modo, nella corrispondente dedizione al Regno che si avvicina e che rende possibile e chiede il raduno di Israele, la figura riuscita di uomo, frutto di un processo educativo che non si segnala innanzitutto per metodiche o tecniche, ma per fiducia incondizionata e per assorbente coinvolgimento di intelligenza, amore e volontà attorno a un centro di attrazione in cui si condensano tutti i significati desiderabili dell’umano personale e sociale.

A volere ripercorre alcuni tratti del cammino evangelico, ci imbattiamo, all’apparire di Gesù sulla scena galilaica e giudaica, nella prima figura che egli evoca in tutti, quella del profeta. Un profeta che si torna volentieri ad ascoltare e vedere, dopo essere stati catturati dal fascino che emana dalla sua persona carismatica per parole e gesti, riconoscendo in lui un maestro. Un fatto di singolare portata, questo, per uno di cui non si può dire che abbia avuto «un’istruzione regolare» e il cui «insegnamento non si richiamava alla tradizione del passato o ad autorità precedenti», ma presentava un carattere fortemente innovativo (J.D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo I. La memoria di Gesù, 2. La missione di Gesù, Paideia, Brescia 2006, 734).

Cogliamo tale carattere innovativo soprattutto nelle parabole, ma anche nel modo come egli instaura i rapporti personali con coloro che incontra. Circa le prime, possiamo osservare come a un certo punto si introduce nell’esperienza di Gesù una frattura profonda: «arriva un momento in cui il grande favore iniziale che si genera attorno a lui, al suo modo di parlare di Dio, diventa oggetto di un grande fraintendimento e di una cupa incomprensione. Egli si trova a vivere un momento profondamente critico, che richiede di cambiare completamente strategia. […] A questo punto […] Gesù decide che è necessario inventare un nuovo registro linguistico per parlare a chi fraintende e a chi non vuole ascoltare: inventa le parabole» (G. Zanchi, Il regno nascosto. Le parabole di Gesù e l’idea evangelica di Dio, Longuelo Comunità cristiana, Bergamo 2015, 34). Le parabole, nella forma originale che assumono nel linguaggio di Gesù, sono una espressione insuperabile della sua arte educativa, che consiste nel dare a pensare, nello sfidare l’autocoscienza e la libertà di chi ascolta perché esca da se stesso e si apra alla realtà.

Qualcosa di simile accade negli incontri di Gesù. Un esempio paradigmatico è quello con il cosiddetto giovane ricco, che troviamo in Mc 10,17-31 (anche Mt 19,16-30 e Lc 18,18-30). Anche qui l’iniziativa di Gesù consiste nell’assecondare e accompagnare il cammino di un uomo alla ricerca del proprio ideale di vita e di sé con un riferimento radicale a Dio. Nessuna forzatura o costrizione, solo un lasciar prendere coscienza e un invito a trarre le conseguenze coerenti delle proprie domande e delle proprie profonde esigenze insieme umane e religiose. L’esito dell’incontro conferma come nessun percorso educativo sia già scontato; il fallimento è una possibilità reale della costitutiva libertà che di quel percorso è il contenuto, l’orizzonte e il compimento.

Potrebbe sembrare che a questo punto il discorso sia concluso, salva la necessità di sviluppare adeguatamente questi ed altri elementi pertinenti una rilettura della figura di Gesù in prospettiva educativa. Il fatto è che, se vogliamo parlare del significato educativo della persona e dell’opera di Gesù, non possiamo prescindere dall’atteggiamento che lo conduce alla morte in croce, non certo frutto del caso ma effetto di un orientamento liberamente e consapevolmente assunto. Al punto che, il significato di tutto ciò che egli ha detto e fatto prima della morte ha preso piena consistenza e ha meritato di essere non solo rivisitato e ricordato, ma anche imitato e assimilato, proprio in forza del modo come egli è andato incontro alla morte. Se vogliamo davvero adottare l’educazione come cifra di lettura, potremmo prendere a prestito le parole di uno scrittore contemporaneo: Gesù è vissuto ed è andato incontro alla morte «sapendo che educare significa ferirsi» (E. Affinati, Elogio del ripetente, Mondadori, Milano 2015, 50). L’annuncio della risurrezione, che segue immediatamente la consumazione della morte, non è altro che il senso della morte di Gesù, per il modo come egli l’ha affrontata e vissuta, e anche per il significato che essa ha assunto alla luce della sua intera vicenda sullo sfondo delle Scritture di Israele.

Nel processo di trasmissione il contenuto storico della vicenda di Gesù non può essere separato dalla storia della memoria credente dentro la quale si formano i Vangeli e si struttura la comunità dei discepoli e dei credenti in Gesù. Al di fuori di quella che studiosi come James Dunn chiamano «la tradizione di Gesù» non si dà accesso alla sua figura completa, prima e dopo Pasqua. Gesù di Nazaret non può essere isolato dal Cristo della fede, dal momento che proprio la fede ha consentito di conservarne la memoria, nella coscienza di averne colto l’identità di Figlio e il compito messianico.

Come educatore, Gesù non può essere compreso a prescindere dalla totalità della sua vicenda, fino alla morte, alla risurrezione e all’invio dello Spirito. L’influsso educativo esercitato dalla sua persona non si limita a ciò che egli ha insegnato o compiuto, ma comprende una interazione con la libertà di chi lo incontra, ne ascolta la parola, percepisce la presenza del suo Spirito. Possiamo pertanto dire, a modo di conclusione provvisoria, che è importante quanto Gesù ha detto e compiuto come carismatico itinerante per le vie della Palestina, testimoniando sempre come da lui emanasse una unità personale fortissima; importante, non meno, la capacità di condurre a una intelligenza acuta di ciò che veramente è contenuto nella stessa Scrittura come espressione della volontà originaria di Dio per una reale maturazione e un pieno coinvolgimento della persona in un atteggiamento di fiducia e di libertà interiore; importante, ancora, l’impegno a creare comunione e a stabilire nuove relazioni attorno alla sua persona come concretizzazione della presenza del Regno di Dio. Ciò che ultimamente conta, però, e che dà valore a tutto ciò, è il fatto che la sua ultima identità – umana e divina – lo pone come modello di una umanità plasmata secondo Dio, tramite la quale, per la forza dello Spirito, altri possono trovare la via della loro compiuta umanizzazione.

Rimane aperta la questione di come la Chiesa, continuazione della sua presenza nella storia, esprima Gesù come educatore. Non si può nascondere la contraddizione con cui non pochi suoi uomini smentiscono la sua identità e la sua missione. Resta vero che in essa tanti riescono, nonostante tutto, a mostrare l’attualità e la fecondità della figura di Gesù come educatore. Di ciò è testimone, oggi, papa Francesco, con la sua opera di rinnovamento della Chiesa. Anche questo incoraggia a guardare ancora a Gesù come educatore.