Discorso all’Incontro con gli insegnanti di religione cattolica (17/03/2014, Curia Vescovile)

18-06-2014

Attribuisco non poca importanza a questo nostro primo incontro, perché, con la Chiesa in Italia, riconosco un valore e un compito significativi alla presenza degli insegnanti di religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado. Pertanto la prima cosa che devo dirvi è che sono contento di incontrarvi e di esprimervi l’apprezzamento per il servizio che prestate alla società e alla vita della Chiesa svolgendo il vostro lavoro di docenti.
Non ignoro le problematiche connesse a tale lavoro, per la peculiarità che comunque lo caratterizza. Esso vive di un paradosso che non sarà mai eliminabile nella configurazione che ha assunto con il Concordato e con il relativo Accordo di revisione di trent’anni fa e le successive Intese attuative. Quella che costituisce, infatti, una permanente condizione di tensione, rappresenta allo stesso tempo il fattore della sua continua rigenerazione e vitalità. Mi spiego.
Il vostro è un lavoro chiamato a tendere verso la più alta professionalità, ma non può farlo senza rafforzare il legame originario e permanente con la Chiesa, in cui quella professionalità si è formata e si coltiva. Cosicché, la perdita di equilibrio tra le due polarità, porta inevitabilmente allo snaturamento dell’insegnamento della religione: una professionalità staccata dalla vita della Chiesa rischia di rendere l’insegnamento della religione estraneo al mondo scolastico, e alla fine privo di giustificazione, perché apre alla domanda e al sospetto su quale bisogno ci sia di un tale insegnamento nella scuola; d’altra parte, la perdita di professionalità squalifica l’insegnamento stesso, lo scredita agli occhi dell’intero mondo della scuola e lo spinge ugualmente ai margini dell’istituzione scolastica. Il vostro insegnamento richiede, se possibile, il massimo inserimento scolastico e il più profondo legame ecclesiale.
Nella sua forma attuale, lo stesso valore culturale e scolastico della materia che insegnate ha bisogno di essere garantito dal radicamento ecclesiale della sua elaborazione, prima che dalla sua stessa procedura giuridica. I cambiamenti profondi a cui è soggetta la nostra società, non consentono di concludere che sono mutate le condizioni che giustificano la scelta della forma cattolica di insegnamento della religione nella scuola. Continuano a essere straordinariamente persistenti e pervasivi i segni di un cattolicesimo culturale che non cessa di impregnare la vita sociale anche dell’Italia di oggi. I nuovi cittadini di oggi, italiani e immigrati, hanno tutti bisogno di apprendere l’alfabeto della loro cultura, per imparare ad abitare con un senso compiuto di orientamento questo Paese e il mondo di oggi. L’abilitazione alla decifrazione e alla collocazione degli elementi costitutivi della nostra storia e della nostra cultura nell’universo coerente di visione della realtà da cui prendono vita, non può che avvenire all’interno di quel mondo ecclesiale che li genera, li giustifica, li alimenta. Non è casuale che nella Chiesa, a prescindere dall’insegnamento scolastico della religione, la fede richieda da sempre la dedicazione di persone e istituzioni, anche accademiche, all’approfondimento teologico e culturale dei suoi contenuti, delle sue motivazioni e delle sue implicazioni.
È questa l’ottica dalla quale guardare tutti gli altri aspetti che emergono dall’esercizio della vostra attività; aspetti che non sono certo di poco conto, e tuttavia hanno solo da perdere una volta staccati o scollegati dal fondamento che li legittima. Sono convinto che il punto di raccordo tra le varie esigenze che si raccolgono attorno al vostro lavoro è costituito, semplicemente, dalle vostre persone, dalla qualità delle vostre persone. Lo dico in termini generali e con la libertà di chi ancora non vi conosce e, dunque, non ha alcun pregiudizio da far valere. Se, da questo punto di vista, mi dite che in tal modo a voi è chiesto di più che a tutti gli altri insegnanti, la mia risposta è: sì, è vero che vi è chiesto di più. Ma questo non è un limite e nemmeno un danno, poiché una richiesta più esigente non è solo una fatica in più, ma anche una opportunità più grande e una ricchezza maggiore. Per la verità non credo che sia facile il lavoro di nessun insegnante di questi tempi, in cui le nuove generazioni presentano sfide sempre nuove, alle quali ci si trova comunque impreparati e che non c’è ruolo riconosciuto e accreditato che riesca a neutralizzare.
Tutti gli insegnanti oggi non possono esimersi dal mettersi in gioco. Nondimeno ciò vale in un modo speciale per gli insegnanti di religione. Se tutti gli insegnanti devono guadagnarsi la stima dei colleghi, il seguito degli studenti, l’interesse per la materia, la considerazione dei genitori, quelli di religione devono spesso fare doppia fatica per raggiungere analoghi risultati. Ma se qualcuno pensa che un meccanismo giuridico o organizzativo possa magicamente, come d’incanto, riportare le condizioni alla pari, si illude pericolosamente e, di fatto, aggira e tenta di non affrontare il vero problema. E il vero problema è nella voglia e nella capacità di mettersi in gioco, di lavorare con passione, di credere in ciò di cui si sta parlando, di sentirsi investiti della responsabilità ma anche del sostegno della Chiesa intera, la quale non cessa di credere nel valore della educazione e della cultura per promuovere la persona come tale, oltre che quella del credente.
Si tratta di mettersi in gioco a un triplice livello: sociale, ecclesiale, spirituale. Sul piano sociale, mettersi in gioco significa dare un’anima a ciò che facciamo, far valere la dedizione personale, dare forma a un impegno appassionato. Il termine forse più adeguato e meno parziale per esprimere tutto ciò è volontariato, parola in disuso, forse screditata o quanto meno consegnata a una stagione passata o, peggio, a una moda. In realtà essa evoca una delle dimensioni più profonde della persona, e cioè la volontà e la libertà. Assuefatti come siamo alle contrapposizioni schematiche tra retribuito e volontario e tra dovuto e gratuito, condizionati da una logica utilitaristica e consumistica, soprattutto resi incapaci di intrecciare e fecondare reciprocamente le categorie di quantità e di qualità, finiamo con il separare ciò che dovremmo tenere unito: il lavoro e il piacere di fare bene le cose o la gioia di dedicarsi anche nel lavoro, come se l’amore lo potessimo mettere solo in alcune cose e non in altre, e la sua logica non potesse entrare nelle dinamiche del lavoro; o come se ciò che deve essere osservato per legge debba, per forza, rimanere estraneo alle motivazioni che muovono la nostra coscienza, alla gioia che ci danno le cose che apprezziamo e le persone a cui ci leghiamo, alla stessa possibilità del dono e della generosità. Sono convinto che è umanamente desiderabile ed esaltante svolgere il proprio lavoro come se fosse un gioco, un divertimento, un piacere da condividere con altri; lavorare con l’animo del volontario, affrontare con lo spirito del volontariato entusiasta e appassionato la fatica a volte ingrata di un lavoro difficile e talora frustrante. Penso che un credente dovrebbe testimoniare un tale senso delle cose, un tale modo semplicemente e nobilmente umano di affrontare la vita. E un insegnante di religione è tra i più richiesti di rendere una tale prestazione qualitativa del proprio lavoro scolastico. Sono convinto che un approccio positivo e propositivo è capace di trasformare radicalmente le condizioni e il clima dei rapporti e dell’ambiente di lavoro, al di là delle condizioni formali e istituzionali, e al di là dei condizionamenti psicologici e relazionali in cui veniamo a trovarci coinvolti e impigliati.
Sul piano ecclesiale, vorrei mettere in evidenza soprattutto la dimensione culturale della formazione permanente. Non è l’unica e, forse, nemmeno la principale, e tuttavia presenta una nota qualificante per il servizio professionale svolto nell’ambito della scuola. L’evoluzione incessante dell’esperienza e del sapere, nel loro reciproco intreccio, non consentono a nessuno di ridurre la propria competenza contenutistica e metodologica a una acquisizione fissata una volta per tutte; il rischio è quello di rimanere fuori dalla relazione formativa e di perdere la capacità comunicativa di contenuti non adeguatamente aggiornati in rapporto allo sviluppo del sapere teologico, agli intrecci con le altre discipline, alle esigenze e alle condizioni di apprendimento e di interazione degli studenti. L’istanza di fondo che tocca questo aspetto consiste nella capacità dell’insegnamento della religione cattolica di essere all’altezza del compito scolastico che gli è richiesto. In questo, la professionalità è condizione di riconoscimento di pari dignità.
Sul piano spirituale, vorrei solo far notare come, nella prospettiva del cre-dente, l’unità della persona – richiesta almeno implicitamente a tutti, se non altro come ideale a cui tendere – si conferma come carattere imprescindibile del compito scolastico e più in generale educativo. La professionalizzazione non è alternativa alla personalizzazione e non equivale a funzionalizzazione. Senza fare confusione tra insegnamento scolastico e catechesi, tuttavia – almeno nella stessa misura in cui serietà umana vuole che ogni docente esprima con la sua persona e il suo stile di vita le esigenze del compito che svolge e la coerenza con le idee che professa, esprime e comunica – l’insegnante di religione si presenta umanamente serio e credibile nella misura in cui ciò che insegna lo coinvolge personalmente.
In questo senso, la laicità propria del contesto scolastico con la sua pluralità di presenze e di opzioni, non comporta l’assenza di orientamenti ideali e valoriali, ma la loro leale manifestazione nel rispetto delle persone. Altrimenti il rischio è di far diventare il neutralismo e il laicismo la vera ideologia e la religione alternativa a tutte le altre minacciate di esclusione. La pretesa di essere se stessi fino in fondo e il coraggio di manifestare la propria visione della realtà e della vita sono la condizione elementare per stare con dignità e verità dentro una società plurale, non per prevaricare, ma nemmeno per venire più o meno subdolamente marginalizzati e rimossi. Coltivare e manifestare la propria identità credente è servizio educativo e scolastico di prima grandezza e urgenza; è anche condizione per far riconoscere e apprezzare la materia che si insegna, per dare credibilità alle vostre persone, soprattutto per prendere posizione a favore della verità di ciò che insegnate. La dissociazione tra coscienza e insegnamento, tra vita personale e cultura trasmessa in termini professionalmente competenti, è internamente contraddittoria, perché nega nei fatti ciò che viene detto a parole. Ora, per una fede che abbia la capacità di essere professata senza travalicare i confini che una istituzione come quella scolastica disegna entro i parametri di una società plurale, c’è bisogno di una vita spirituale personale che si alimenti con regolarità alle sorgenti della vita ecclesiale e delle sue iniziative pastorali. Senza una fede personalmente coltivata nella comunità ecclesiale, è pericolosamente a rischio un insegnamento pubblico sulle radici, l’identità, l’articolazione di una cultura che è nata dalla fede e rimane viva grazie alla fede. Per aiutare gli studenti a orientarsi in un territorio in termini culturali, di quel territorio bisogna essere padroni ed essere capaci e in attività per coltivarlo con le proprie mani.
Su questa dimensione può risultare illuminante la seconda sezione del capitolo secondo della Esortazione Evangelii gaudium di papa Francesco (nn. 76-109), nella quale egli sviluppa la sua riflessione sugli operatori pastorali. Vi propongo un passaggio del n. 77, che trova appropriata applicazione nella vostra peculiare condizione. Scrive papa Francesco: «Come figli di questa epoca, tutti siamo in qualche modo sotto l’influsso della cultura attuale globalizzata, che, pur presentandoci valori e nuove possibilità, può anche limitarci, condizionarci e persino farci ammalare. Riconosco che abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli operatori pastorali, “luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le preoccupazioni del quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri evangelici sulla propria esistenza ed esperienza, al fine di orientare al bene e al bello le proprie scelte individuali e sociali”».
Abbiamo bisogno tutti, avete bisogno anche voi, di spazi e di luoghi in cui rigenerare la fede; possono essere luoghi vari, anche i più impensati, ma tutti con una connotazione ecclesiale, cioè propria della presenza sacramentale di Cristo capo e del suo Spirito che dà conformazione al suo corpo. Sì, nella Chiesa noi ritroviamo noi stessi, la nostra identità e la nostra missione, riscopriamo la vita come vocazione e attingiamo la forza per tutti i compiti che il Signore ci affida, da quelli personali e familiari a quelli professionali e sociali.
Chiudendo, allora, voglio ribadire che l’idoneità non è altra cosa da tale triplice coinvolgimento, che ho definito sociale, ecclesiale, spirituale: non una certificazione innanzitutto, ma un legame, un legame ecclesiale saldo e assiduo che nutre la mente, il cuore, la vita.