Lettera ai presbiteri e ai diaconi nel tempo dell’isolamento per l’epidemia di Covid-19 (16/03/2020 – Latina)

Cari confratelli,

ho pensato di scrivervi per condividere pensieri e sentimenti di questi giorni.

Innanzitutto vi ringrazio per il modo come avete vissuto questa prima domenica senza celebrazioni con il popolo. Ho colto diversi segni della vostra iniziativa pastorale volta ad offrire ai fedeli il sostegno della Parola di Dio, della fede e della preghiera.

Uno spunto di riflessione vorrei ora porgervi muovendo dalle considerazioni polemiche di qualche commentatore. È vero che per la prima volta, di fronte al diffondersi di una epidemia, la comunità ecclesiale, attenendosi alle indicazioni delle autorità sanitarie e governative, ha risposto all’emergenza sospendendo ogni manifestazione, anche rituale, che preveda la partecipazione di fedeli. In passato, in circostanze analoghe, è talora successo il contrario: si intensificavano le celebrazioni e si promuovevano processioni, con grande partecipazione di popolo. In verità, andrebbe verificato storicamente come siano andate di volta in volta le cose, ma non c’è dubbio che una sospensione generalizzata – che toccherà anche la settimana santa e la celebrazione della Pasqua – è la prima volta che viene adottata.

Qualcuno grida all’affronto per la fede e alla diserzione degli uomini di Chiesa; la verità è che i cambiamenti culturali e scientifici intervenuti, e la crescita dell’esperienza della fede cristiana, ci fanno vedere le cose diversamente, ma non per questo con minor fede. Oggi conosciamo più chiaramente le modalità di diffusione di un’epidemia e, responsabilmente, non possiamo permettere che per nostra responsabilità il contagio si diffonda ulteriormente: il virus non rimane fuori dalle porte delle chiese. D’altra parte, la fiducia in Dio e la preghiera sono cosa diversa dal tentare Dio e sfidarlo con la pretesa di miracoli, i quali restano sempre dono gratuito e imprevedibile. Infine, la fede non è mai esentata dalla prova e quella che stiamo vivendo è anche una prova per la fede, attraverso la quale Dio ci vuole dire qualcosa che dobbiamo discernere.

L’aspetto più inquietante di questa prova è la congiunzione di due sofferenze: la minaccia per la salute (e per molti la malattia, la morte) e la privazione dell’Eucaristia. In tempi ordinari, la malattia viene vissuta dai credenti con il sostegno della preghiera e, in particolare, dell’Eucaristia. Ciò che nelle nuove circostanze ci tocca dolorosamente è proprio l’impossibilità di accostarsi all’Eucaristia, che con la tradizione chiamiamo «pane dei pellegrini» e «vero pane dei figli». Adesso i pellegrini e i figli – quali noi siamo – non possono nutrirsene.

Al di là del dolore e dello sconcerto, possiamo notare che ci sono circostanze nelle quali noi stessi – per cause eccezionali, di malattia o altro – non possiamo celebrare e ricevere l’Eucaristia, inoltre che ci sono e ci sono state situazioni nelle quali intere comunità sono rimaste, per periodi più o meni lunghi, privi del Sacramento, in tempi di persecuzione o per mancanza di sacerdoti.

Proprio per la serietà della prova, alcuni dei nostri fedeli faranno di questo tempo un’occasione per rafforzare la fede: per questo noi preghiamo e ci adoperiamo con gli strumenti che abbiamo a disposizione. In altri però – pochi o molti – si può insinuare un pensiero che mette in dubbio o indebolisce la fede, considerata alla fine irrilevante di fronte a problemi difficili e a sfide straordinarie come quelli che abbiamo dinanzi. Insomma, agli occhi di qualcuno la fede sembra perdere di significato e di rilevanza, perché in realtà solo la medicina, la scienza, una efficiente organizzazione sociale risultano di aiuto in questi frangenti. Di qui la domanda, o il sospetto, che può sorgere: se la fede non è in grado di fare qualcosa e di dire una parola significativa per le situazioni limite della vita e della storia, come potrà illuminare l’esistenza ordinaria e la vita di ogni giorno?

La fase che attraversiamo è destinata a modificare la condizione spirituale di molti credenti, rafforzandone alcuni, ma mettendo in crisi altri, tentati appunto dall’idea di irrilevanza, se non di insignificanza, della fede cristiana.

Di fronte a questa eventualità dobbiamo maturare una coscienza all’altezza delle questioni e non limitarci a surrogare una pastorale per tempi ordinari. È difficile dire, ora, se questa sia una semplice parentesi, dopo la quale riprenderà tutto come prima, così come prevedere che cosa cambierà e come noi stessi saremo cambiati. In ogni caso, sarà opportuno interrogarsi: come accompagnare consapevolmente il processo di cambiamento, senza subirne supinamente il corso?

Vedo – in continuità con le comunicazioni precedenti – tre piste da seguire, per cercare risposte, rimanere vigili dentro il processo di trasformazione, assumere atteggiamenti corrispondenti adeguati. Esse sono: la riscoperta di alcuni temi dimenticati in un orizzonte più compiuto della nostra fede, la valorizzazione delle relazioni come rete costitutiva di un tessuto ecclesiale capace di reggere al cambiamento e di guidarlo dall’interno, la capacità di accompagnare con segni concreti di solidarietà i drammi che in questi frangenti si consumano sotto i nostri occhi.

  1. In primo luogo abbiamo bisogno di attingere alle risorse della nostra fede nella loro integralità. Senza panico e senza recriminazioni, dobbiamo lasciarci ispirare dal tempo liturgico di Quaresima e dal suo orientamento alla Pasqua di Cristo: chiamati a vivere al meglio la nostra condizione umana, nella solidarietà e nella fraternità, sperimentiamo il peccato e l’infedeltà che deturpano il volto delle persone e delle comunità umane, per riscoprire che abbiamo bisogno non solo di salute e di benessere, ma di vita nuova e di un cuore nuovo che solo il Crocifisso-Risorto può rigenerare in noi; non dobbiamo far altro che inserirci nel solco del suo cammino terreno orientato a una pienezza che, attraverso la croce, trasforma l’umano dall’interno e lo conduce verso la glorificazione in Dio. Il segno di questa Quaresima spogliata di riti e di manifestazioni esteriori sta nella sua capacità di riportarci alle cose essenziali della nostra condizione e della nostra fede: la fragilità di fronte al male, il bisogno di reagire ad esso e di aiutarci per farlo, ma anche la potenza della morte e il bisogno di una salvezza che non si accontenta di guarire da una malattia, bensì annuncia e promette una vita piena dentro e oltre questa vita. Questo deve diventare il momento per ridare vigore all’annuncio della risurrezione come senso del nostro cammino terreno e termine ultimo che trascende la nostra condizione temporale. In questa prospettiva integrale, con la serenità gioiosa che è propria della speranza cristiana, non dobbiamo avere timore di annunciare la vita eterna, vera spinta e risorsa indispensabile fin da ora per una vita migliore, per una vita piena. Ci sta stretto il ruolo di consolatori e di risorsa morale per una società in affanno; noi abbiamo ambizioni più grandi, che abbracciano l’incoraggiamento e la collaborazione da infondere nelle nostre comunità civili, ma guardano e orientano verso una pienezza di vita – umana e divina, terrena ed eterna – che ci viene da Cristo risorto. Ne abbiamo bisogno noi, ne hanno diritto i nostri fedeli, ne attendono l’annuncio e la testimonianza tutti. Con questa consapevolezza, tutte le risorse che stiamo utilizzando assumono un’altra profondità; e allora possiamo continuare a servirci di streaming e video, registrazioni e suono di campane, celebrazioni e preghiera liturgica trasmesse, devozioni e formule di preghiera le più diverse, catechesi e predicazioni, e altro ancora, sapendo che tutto, insomma, diventa risorsa di un annuncio autenticamente cristiano, capace di reggere il peso di questi giorni e di prepararci al dopo-epidemia.
  2. Ad essere provato in questa fase è anche il tessuto delle nostre comunità ecclesiali, a rischio di dispersione e di smarrimento. A questo scopo è necessario – insieme a tutte le forme di comunicazione, generaliste o per gruppi – prendersi cura delle relazioni personali. I fedeli vanno cercati uno per uno, con la discrezione necessaria ma anche con la cordialità e l’interessamento sincero. In questo movimento di contatto personale devono essere coinvolti anche i collaboratori più stretti e i membri dei consigli, così da stendere una rete che copra l’intera comunità. È, questa, una circostanza propizia per far sentire a tutti il senso di una appartenenza e di un legame più forti di ogni contrarietà e di ogni minaccia, mossi tutti come siamo dalla fede e dal desiderio di alimentare la certezza che il Signore è con noi, ci sostiene e ci aiuta, attraverso la comunità, ad affrontare le difficoltà presenti. Grazie a questa rete viva potranno emergere situazioni di disagio e di solitudine, o anche un senso di abbattimento e perfino di depressione che può colpire alcuni. È il kairós della ‘consolazione’ cristiana. Il sentimento di prossimità e la disponibilità a farsi carico gli uni degli altri diventano fattori umanissimi ma potenti di una fede che realmente ed efficacemente crea comunità attorno al Signore.
  3. Proprio in questa rete viva di comunicazione e di scambio sono destinate ad emergere le situazioni più gravi di indigenza e di bisogno di aiuto concreto. Famiglie con malati e anziani in casa, famiglie con bambini e ragazzi bisognose di aiuto, famiglie senza alcuno che lavori e che le aiuti o persone sole in difficoltà: sono le situazioni ricorrenti in questi giorni più che in altri periodi. Siamo chiamati a farcene carico. La Caritas diocesana è attrezzata per supportare le Caritas parrocchiali e le iniziative straordinarie che si intraprendono. Un altro servizio importante è favorire la disponibilità di giovani maggiorenni a svolgere servizi di volontariato per la distribuzione di viveri nelle Caritas parrocchiali e di pasti nelle mense della Caritas, nonché per altre forme di collaborazione secondo quanto disposto e organizzato dalla Caritas diocesana. Senza trascurare la cura per la propria e altrui salute, dobbiamo far sentire che il cuore della carità batte ancora più forte in questo tempo in cui non si saprebbe dire se sia più pressante il soccorso di beni materiali o il sostegno spirituale a quanti sono nella prova ed a quanti ne sperimentano, con inquietudine continua, la prossimità.

Ed infine ma sopra a tutto questo, la condizione degli infermi e dei malati gravi. Le comunità cristiane conoscono e sono già impegnate nel vasto campo dell’assistenza spirituale e talora materiale agli ammalati. Ma non possiamo respingere il dato che l’attuale pandemia ci mette di fronte e cioè di persone che, rescisse da tutti i legami familiari per fini di profilassi e di cura, affrontano nella solitudine assoluta il tempo sospeso e doloroso della ‘terapia intensiva’, e, purtroppo, nella medesima solitudine l’agonia e la morte. Noi dobbiamo trovare il modo di rendere vicina la Speranza di cui siamo animati a questi nostri fratelli.

Ho voluto in questo modo condividere ancora con voi, cari confratelli, alcuni pensieri, preoccupazioni e indicazioni per questi giorni, che purtroppo sono ancora i primi di un periodo che potrebbe non essere brevissimo, perché possiamo viverlo nella maniera più consapevole e nella più grande comunione tra di noi e con tutta la Chiesa, che condivide una pandemia che ormai ha superato tutti i confini.

Rimaniamo uniti nella preghiera, nello scambio delle comunicazioni, nel desiderio di contribuire a fare di questo un periodo di crescita per la nostra fede e per il nostro essere Chiesa. Noi stessi non abbiamo timore a condividere le nostre difficoltà, anche personali, e ad aiutarci a vicenda.

Il Signore vi benedica.

✠ Mariano Crociata

Latina
16-03-2020